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L’orrore di Parigi non fermi il dialogo con l’Islam. L’analisi di Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

Il senso di orrore che fatti come quelli occorsi a Parigi ha provocato indurrebbe a pensare che non esistono strumenti per bloccare definitivamente questi attentati. Ma così non è. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, master counter terrorism King’s College London

Parigi si è di nuovo rivelata un bersaglio prediletto del terrorismo jihadista: obiettivo simbolico nell’omicidio del professor Samuel Paty, decapitato per strada, è il principio della libertà di espressione religiosa in un Paese che ha creduto e praticato per secoli il principio della laicità dello Stato. Le istituzioni francesi non si intromettono nelle scelte religiose dei propri cittadini: tutti sono liberi di pregare come e se credono lungo la Senna. In molti Paesi di religione musulmana, invece, dove le leggi sono condizionate fortemente dai principi religiosi si rischia il carcere, la dilapidazione pubblica e a volte la pena di morte nei casi di blasfemia. Da tempo in Francia molti cittadini della comunità musulmana di seconda o terza generazione appartenenti a famiglie partite decenni fa da Paesi musulmani non si ritrovano più a convivere con la laicità affermata e praticata dalle istituzioni.

Venerdì 16 ottobre, un professore, che in nome della libertà di espressione aveva mostrato ai suoi studenti delle vignette raffiguranti il profeta Maometto, è stato decapitato da un diciannovenne di origine cecena, con modalità che hanno fatto tornare alla mente le esecuzioni degli ostaggi occidentali da parte dell’Isis. L’attentatore è stato poi ucciso dalle forze dell’ordine intervenute. Nonostante vi siano al momento pochi dubbi che l’attentatore di Parigi non abbia legami con organizzazioni jihadiste transnazionali, comunque su Internet sostenitori dell’Isis hanno festeggiato. Anche questi attacchi di “lupi solitari” totalmente disconnessi con il gruppo basato in Nord Africa possono fornire nuova pubblicità al Califfato, ormai totalmente destrutturato ma comunque virtualmente accessibile a tutti. Diversi Paesi europei si sono fatti carico di ospitare centinaia di rifugiati ceceni, scampati a due guerre contro la Federazione Russa caratterizzate da attacchi indiscriminati e violazioni umanitarie contro la popolazione cecena, che hanno portato (unitamente ad altri fattori, come l’influenza esterna del wahabismo) alla radicalizzazione di molti giovani locali. La stragrande maggioranza dei ceceni residenti in Europa non ha aderito alla violenza in nome della jihad, ma comunque è un obiettivo stimolante per i reclutatori e la propaganda estremista, a causa dei loro profondi traumi personali e sociali subiti da parte dei russi. Per esempio, l’Austria, Paese che ospita circa 3.000 ceceni, ha visto diversi di essi partire per il fronte siriano.

Oltre agli attacchi su suolo francese, il Paese transalpino ha esportato centinaia di suoi cittadini unitisi ai miliziani dell’Isis in Siria e Iraq, provenienti non solo dalle zone più disagiate delle grandi città, ma anche da realtà più piccole e da zone più rurali. Per esempio, la città di Nizza ha visto più di 100 suoi residenti partire per la Siria e l’Iraq, così come la piccola cittadina di Trappes (poco più di 3.000 abitanti) ne ha visti partire circa 80. In Italia, invece, la città di Ravenna ha ospitato e aiutato a partire circa venti foreign fighter, di più cioè di quelli partiti dall’intera Lombardia. Nonostante gli sforzi dell’intelligence e dell’antiterrorismo parigino la situazione non sembra cambiata, soprattutto per quanto riguarda i numeri dei radicalizzati, confermando così che ora vi è bisogno di combattere il fenomeno sul piano politico e culturale più che su quello della sicurezza. Per quanto riguarda le contromisure più immediate, però, secondo quanto trapelato dall’agenzia di stampa Reuters, il ministero dell’Interno francese sarebbe pronto a espellere più di 200 estremisti legati al mondo jihadista dal suolo francese. La Francia, a differenza dell’Italia, ha fatto un uso molto limitato dell’espulsione per motivi di sicurezza nazionale, dovuto al fatto che molti foreign fighter francesi hanno la cittadinanza, sono francesi di seconda o terza generazione e pertanto non possono essere espulsi. Inoltre, il governo francese procederà anche con la messa al bando di diversi gruppi islamisti, dopo la promessa del presidente Emmanuel Macron di intensificare il contrasto all’estremismo violento. Già nello scorso febbraio Macron aveva dichiarato la contrarietà di diverse correnti dell’Islam politico, come quelle che si rifanno alla Fratellanza Musulmana (al-Ikhwān al-Muslimūn) e al salafismo (i cui seguaci più coinvolti nella politica sono detti haraki). Per contrastare tale influenza, in palese contrasto con uno dei principi cardine della Repubblica francese, la laïcité, che impone una posizione di assoluta neutralità e imparzialità nei confronti della religione, l’attuale presidente ha proposto di limitare l’influenza degli imam stranieri, sostituendoli con predicatori totalmente formati in Francia. Ma ha anche progettato di aumentare rigorosamente i controlli sulle fonti di finanziamento di Moschee e centri culturali provenienti dall’estero. Ma soprattutto ha ribadito la doverosità per gli stranieri di altre religioni di rispettare i principi fondamentali della République adattando le proprie culture e tradizioni.

Nel nostro Paese, da almeno 15 anni con esperienze governative trasversali — iniziate già nel 2008 con il sottosegretario Alfredo Mantovano, proseguite dal ministro Andrea Riccardi con il governo Monti, così come con l’esperienza lombarda guidata dal governatore Roberto Maroni e ancor più di recente riproposte con vigore dal ministro Marco Minniti sotto il governo Renzi — sono stati avviati tavoli di dialogo con il cosiddetto islam moderato, erroneamente definito in tal modo essendo connaturata alla religione musulmana una natura non associabile direttamente all’estremismo religioso radicale di alcune fazioni. Per esempio Paesi strategici e storicamente importanti per gli equilibri geopolitici ed economici dell’area come la Turchia rifiutano con fermezza che nel corso di tavoli diplomatici si usino definizioni del tipo “terrorismo islamico” o “islam moderato”, arrivando ad abbandonare i tavoli di lavoro proprio per disinnescare il luogo comune che identifica l’Islam col terrorismo.  Di recente durante il governo Gentiloni, venne siglato, fra il ministro dell’Interno Minniti e le diverse associazioni e comunità islamiche, il cosiddetto “Patto per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale”. Tale accordo si impegna, nel rispetto dei principi fondamentali della Carta costituzionale, alla promozione di una religione in grado di coesistere in armonia con la società italiana, favorendo il dialogo e lo scambio inter-culturale. Precedendo quando stabilito da Macron, il Patto aveva già previsto la cooperazione nella formazione degli imam, soprattutto di quelli legittimati a predicare nelle carceri; così come stabiliva un maggior controllo sui finanziamenti delle moschee e centri di cultura; si disponeva, inoltre, l’uso della lingua Italiana durante le prediche e i sermoni degli imam nei luoghi di aggregazione religiosa, allo scopo anche di isolare gli estremismi e di aumentare la sicurezza pubblica rendendo la vita religiosa delle comunità musulmana la più trasparente possibile. Le difficoltà di condivisione dell’impegno consacrato dal Patto sono derivate prevalentemente dalla constata differenza tra i diversi gruppi etnici partecipanti. Si è riscontrato così che l’islam tunisino è praticato in modo diverso da quello filippino, turco, egiziano, pachistano, marocchino, eccetera. E in una religione organizzata senza centralizzazioni come avviene per esempio nella religione cristiana che riconosce univocamente nel papa la guida spirituale dell’intera comunità, l’assenza di un unico interlocutore per tutti i rappresentanti seduti al tavolo ha comportato enormi difficoltà nel procedere sino alla stesura di un documento finale non sottoscritto però da tutti i rappresentanti delle comunità musulmane partecipanti. Ma sebbene non abbia portato a risultati concreti da segnalare il dibattito durato un decennio tra istituzioni e comunità islamica da noi ha prodotto invece evidenti cambiamenti. Il senso di orrore che fatti come quelli occorsi a Parigi ha provocato indurrebbe a pensare che non esistono strumenti per bloccare definitivamente questi attentati. Ma così non è. Il Califfato stato sconfitto; in Europa sono sempre meno ricorrenti i rischi di gravi attentati a lungo organizzati e strutturati; in tutto il mondo musulmano è avvertito un allontanamento dal supporto, anche solo emozionale, alle azioni terroristiche degli estremisti

La lunga onda dell’estremismo radicale sembra comunque in una situazione di stallo. È presto per dirlo e sentirci fuori da ogni rischio ma la volontà di tenere aperto un dialogo come l’esperienza dei tavoli sta indicando è un segnale rassicurante. Ci vorrà del tempo. Ma siamo sulla strada giusta perché si affermi l’islam dialogante e pacifico.

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