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La ciccia non è sul Mes, sarà un mercoledì da pavoni

Sul voto di domani sono in circolazione da giorni tre tesi quantomeno stravaganti (a voler essere benevoli), ma il dibattito sul Mes è già archiviato, anche perché gravido di conseguenze (potenziali) a 5-10 anni. Mentre i soldi del Next Generation Eu sono qui e adesso. La ciccia è tutta lì. L’analisi di Roberto Arditti

Il rinvio del consiglio dei Ministri è il segno evidente dello spostamento di attenzione dal voto sul Mes al piano di gestione dei fondi Next Generation EU, cioè la partita politica più importante dei prossimi anni.

Nel più classico degli schemi italiani, quello che appariva come un appuntamento epocale si è già trasformato in noiosa routine parlamentare.

Questo sarà il voto di domani sulla revisione del Mes, per ragioni che però sono assai diverse da quelle raccontate da gran parte dei protagonisti ed anche da alcuni degli osservatori.

Sono infatti in circolazione da giorni tre tesi quantomeno stravaganti (a voler essere benevoli), figlie di quel cortocircuito tra interessi di parte e informazione di parte che occupa una quota non piccola del nostro sistema d’informazione.

Tre tesi che riguardano un po’ tutti i giocatori della partita, nessuno dei quali ci racconta davvero cosa vuole.

Cominciamo dalla maggioranza di governo, descritta ripetutamente come pronta ad esplodere (tesi stravagante numero uno).

Ebbene qui va detta una cosa precisa e (sostanzialmente) definitiva: l’accordo PD-M5S (ed altri, Renzi in testa) durerà sino alla fine della legislatura, poiché nessuno intende rinunciare all’esistente in nome di un futuro incerto.

Non c’è quindi all’orizzonte nessuna crisi irreparabile, nessuna implosione, nessuna situazione tipo quella dell’estate 2019, quando Salvini portò se stesso e la Lega fuori dal governo.

Quello che c’è (e che molto probabilmente porterà a qualche cambiamento negli assetti esistenti in tempi non lunghissimi) è la volontà di molti di mettere mano alla composizione del governo, combinata con la volontà di alcuni di cambiare anche la figura del premier.

Tutto ciò (nella più assoluta tradizione italiana di settant’anni di vita della Repubblica) genererà ad un certo punto un nuovo esecutivo (cosa peraltro auspicabile a mio avviso, essendo quello in carica nato in un contesto totalmente diverso dall’attuale): niente di più e niente di meno (e comunque non è poca cosa), un nuovo esecutivo che avrà come missione essenziale la ripartenza nazionale in forza dei fondi europei che dovrebbero essere disponibili a breve (ma non a brevissimo).

Più in particolare va compresa sino in fondo la reale dinamica all’interno del M5S, dove ormai le cose seguono un copione ben preciso e collaudato: a una settimana dal voto tutti strillano come aquile minacciando sfracelli, a tre giorni dal voto molti alzano la voce invocando una soluzione condivisa in nome dell’integrità del movimento (e della sua purezza ideologica), il giorno prima del voto, come per magia, le cose si appianano, come testimoniano le dichiarazioni di questa mattina della senatrice Lezzi.

Poi c’è la seconda tesi stravagante (e anche un po’ furbetta), quella secondo cui in caso di crisi di governo l’unico esito possibile è il ritorno alle urne.

Tesi in palese contraddizione con il dettato costituzionale (finché c’è una maggioranza in Parlamento si va avanti), con la prassi istituzionale (abbiamo conosciuto crisi di governo in tutte, ripeto tutte, le legislature dal 1948 a oggi e assai raramente si sono concluse con il ritorno alle urne) e con la pratica politica, che invece ha sempre cavalcato proprio i momenti di caduta (parlamentare o no) degli esecutivi come spazi di massima iniziativa dei partiti, giungendo a volte (2011 con la nascita del governo Monti, tanto per fare un esempio, ma anche 2018 con il primo governo Conte e 2019 con il secondo) a trovare soluzioni di cui nessuno aveva parlato al corpo elettorale. Tesi poi in palese contrasto anche con ogni visione sensata della gestione del potere, poiché nessuna maggioranza si suicida alla viglia di una stagione con 209 miliardi di euro da gestire.

Infine (ma questa non è una classifica) c’è il curioso atteggiamento dell’opposizione.

Qui occorre un momento di concentrazione per seguire il ragionamento, che deve iniziare da una domanda: qual è il momento di massima difficoltà finora vissuto dall’alleanza giallo-rossa?

Certamente l’annuncio di Berlusconi del sostegno di FI allo scostamento di bilancio, perché quel voto pro-governo finiva per mescolare le carte in modo davvero importante, creando (di fatto) una nuova maggioranza a geometria variabile.

Da molti punti di vista lo scenario peggiore per il premier, a quel punto costretto a fronteggiare un crescendo di malumori interni difficilmente arginabile (tanto è vero che proprio in coincidenza con l’annuncio del Cavaliere parte la fronda interna al M5S).

Ecco però il colpo di scena: a metà della passata settimana Berlusconi si riporta sulla linea Salvini e annuncia ferma opposizione alla revisione del Mes, decisione che riassesta le cose a destra (mettendo però Salvini Maloni e lo stesso Berlusconi contro le posizioni ufficiali del Ppe) ma soprattutto mette a posto le cose sul fronte opposto, perché consente una gaudiosa chiamata alle armi di tutti i parlamentari di maggioranza (si legga l’intervista del presidente della Camera Fico di oggi a Repubblica), a questo punto non più obbligati a tenere conto dell’ingombrante compagno di strada.

Insomma Berlusconi (e con lui Salvini e Meloni) hanno fatto la mossa più utile a Conte, tornando a spaccare in due il Parlamento e mettendo così più a loro agio i grillini (oltre che creando le perfette condizioni per l’azione dei “responsabili”).

Domani quindi sarà un ordinario mercoledì, assai poco da leoni.

Diciamo un mercoledì da pavoni, in cui tutti faranno convintamente la ruota.

Il dibattito sul Mes è già archiviato, anche perché gravido di conseguenze (potenziali) a 5-10 anni.

Mentre i soldi del Next Generation EU sono qui e adesso.

La ciccia è tutta lì.

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