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Russia, Balcani e Medio Oriente. Alli spiega la dottrina Biden

Da un Medio Oriente incandescente con il mondo sciita ancora sul piede di guerra a una Russia sempre più aggressiva sul fronte occidentale fino ai Balcani. Paolo Alli, nonresident Senior fellow dell’Atlantic Council e già presidente dell’Assemblea generale della Nato, legge la dottrina Biden

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden dovrà fin da subito districarsi tra ostacoli di ogni genere in politica estera, muoversi su un terreno paludoso e instabile, dove troverà alleati e avversari diversi in funzione dei quadranti geografici e degli interlocutori di volta in volta presenti in quei contesti.

Biden dovrà anche tener conto di quanto di buono Trump ha realizzato in politica estera, soprattutto negli ultimi mesi del suo mandato. Pur tenendo conto dello scopo fondamentalmente propagandistico degli accordi promossi o favoriti in Medio Oriente e nei Balcani, i loro primi esiti costituiscono sicuramente una eredità positiva, che il nuovo Presidente non potrà certo sconfessare.

LA STRATEGIA IN MEDIO ORIENTE

L’avvio da parte di Trump di processi di allentamento della tensione nello scacchiere medio orientale con gli accordi tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein consegna al suo successore uno scenario potenzialmente favorevole. Non a caso, il tattico Netanyahu si è subito affrettato a complimentarsi col vincitore, ben prima che l’amico Trump riconoscesse la propria sconfitta: al successo di questi accordi, infatti, è legato anche il suo personale destino politico.

È perciò presumibile che il processo prosegua, anche per rassicurare la potente comunità ebraica americana che, soprattutto da Obama in poi, non ha nascosto le proprie simpatie per i democratici.

Più complicato per Biden sarà, probabilmente, accettare il riavvicinamento con l’Arabia Saudita voluto da Trump fin dall’inizio del suo mandato, anche se la recente mossa dello stesso Netanyahu, che ha incontrato il principe Salman, potrebbe aiutarlo.

Resta da capire la reazione del mondo sciita, in particolare dell’Iran, che vede negli accordi tra Israele e gli stati sunniti come una aperta provocazione.

E certamente non attenuano questa percezione gli attacchi che hanno visto la morte del potente generale Qasem Soleimani in gennaio e dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, dei quali Teheran incolpa Israele. Non c’è da augurarsi una ripresa di atti terroristici di matrice sciita, anche se questa evenienza, purtroppo, non può essere esclusa.

Anche sul dossier iraniano, quindi, Biden dovrà affrontare una situazione incandescente. Potrebbe, almeno in parte, attenuare le tensioni una ripresa dell’accordo sul nucleare da cui Trump era uscito: il nuovo presidente potrebbe rilanciarlo, probabilmente con alcune correzioni (specie se dovrà passare dalla ratifica di un Senato a guida repubblicana. Se ciò accadrà, questa potrà essere una ulteriore occasione per Washington di riavvicinamento con l’Unione Europea e con i Paesi sottoscrittori dell’accordo.

Resta da capire se gli Stati Uniti cambieranno atteggiamento rispetto ai conflitti in Siria, Iraq, Libia, Yemen, invertendo l’approccio che ne ha caratterizzato il progressivo allontanamento degli ultimi anni. Questo sarebbe auspicabile pure per rafforzare la presenza della stessa UE, anche se appare piuttosto improbabile una ipotesi di nuovo attivismo americano nella regione, almeno in tempi brevi.

BIDEN E I BALCANI OCCIDENTALI

Ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario degli accordi per la pace in Bosnia-Herzegovina firmati a Dayton, in Ohio. La situazione nella regione rimane fortemente instabile, sia per le tensioni interne alla stessa Bosnia, sia per il permanere di un’aspra contrapposizione tra Serbia e Kosovo.

Tra queste due realtà, Trump ha favorito l’avvio di un accordo che rappresenta almeno un inizio di dialogo. Biden dovrà partire da questo punto, per quanto fragile, per portare il contributo americano alla definitiva soluzione di una tensione che si colloca nel cuore dell’Europa e il cui permanere favorisce la penetrazione nella regione di soggetti esterni, come l’Arabia Saudita e la Cina, oltre alla tradizionale forte presenza turca.

Questo è un dossier che riguarda da vicino l’Unione Europeae la setssa Nato, tuttora impegnata nella missione Nato Kfor in Kosovo dopo oltre vent’anni (iniziò nel 1999). Ormai da un decennio a guida italiana, essa è basata ancora oggi sul coinvolgimento di 27 paesi per un totale di circa 3300 uomini, dei quali oltre 600 statunitensi.

USA-RUSSIA, ECCO COSA CAMBIA

La nuova amministrazione non cambierà in modo sostanziale l’atteggiamento verso la Russia, che tutti gli americani continuano a considerare il nemico storico e che gli atteggiamenti di Mosca non hanno certamente contribuito a riavvicinare agli Usa, nonostante le dichiarate simpatie di Trump per Vladimir Putin.

Mosca continua a tenere alta la tensione sul fianco est dell’Europa e dell’Alleanza Atlantica, sia attraverso i cosiddetti conflitti congelati, sia con il marcato interventismo manifestato negli ultimi anni, prima in Siria e successivamente in Libia. L’arretramento degli Usa dalla regione ha favorito l’avanzare di Putin, che ha come obiettivo primario il controllo dei porti siriani sul Mar Mediterraneo, e l’affermarsi di una sempre più esplicita contrapposizione tra Russia e Turchia, che rende il quadrante fortemente instabile.

Lo stesso riaccendersi del conflitto in Nagorno-Karabakh ricade nella dialettica ormai esplicita tra Mosca e Ankara per il controllo della regione medio-orientale e mediterranea. L’intervento per la prima volta esplicito di Erdogan a supporto dell’Azerbaijan ha costretto Putin, da sempre vero dominus del conflitto, a trovare una mediazione nettamente al ribasso per l’Armenia, da sempre sostenuta dalla Russia, anche attraverso la fornitura di armi. Putin, insomma, esce ridimensionato da questa sfida, ma ciò non fa certo prevedere una riduzione di tensioni sul fronte est.

Anche l’ottima notizia dell’elezione della europeista Maia Sandu alla presidenza della Moldova farà certamente i conti, ancora una volta, con le reazioni del leader del Cremlino. È già in atto un aumento delle tensioni in Transnistria, territorio militarmente occupato da Mosca, dove si è nettamente affermato il candidato filorusso, come prevedibile.

Ci si deve solo augurare che questa nuova situazione non porti ad uno scenario simile a quello realizzatosi in Crimea, con il referendum-farsa a seguito del quale la Russia si è annessa l’importantissima penisola, avamposto essenziale per il controllo dell’intero Mar Nero, oggi sempre più militarizzata dal Cremlino. La Moldova è certamente molto meno strategica per Mosca, tuttavia la Transnistria continua a costituire una delle spine nel fianco di Unione Europea e Nato. Gli sviluppi sono, quindi, al momento imprevedibili.

Questa serie di punti caldi, ai quali si aggiungono la guerra in Donbass e l’occupazione militare di Abkhazia e Sud Ossezia in Georgia, non potranno far rimanere tranquillo Joe Biden, specie se vi sarà, da parte sua, una rinnovata attenzione al ruolo della Nato.

 

 

Quarta puntata di una serie di approfondimenti sulle elezioni Usa di Paolo Alli

Qui le puntate precedenti: 1) 2) 3)

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