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Cosa (non) resterà di Donald Trump. L’analisi di Paolo Alli

A più di un mese dalla vittoria di Joe Biden alle elezioni americane Paolo Alli, non-resident Senior Fellow dell’Atlantic Council e già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato, spiega cosa resterà davvero di Donald Trump e perché il presidente-eletto non avrà vita facile

Le elezioni americane hanno calamitato l’attenzione del mondo. Era inevitabile che ciò accadesse, per l’importanza della posta in gioco, e non solo all’interno degli Usa. Il tutto è stato reso più attrattivo dallo strano sistema elettorale americano che si presta molto bene alla spettacolarizzazione della competizione.

La sua dimensione “televisiva”, con tutte le polemiche che l’hanno accompagnata e che ancora la caratterizzano, rischia, però, di dare una immagine riduttiva di un evento destinato ad influenzare in modo significativo gli equilibri geopolitici globali. Questo è tanto più vero in quanto avviene in un momento drammatico della storia recente del pianeta, in preda alla minaccia globale del Covid-19.

A distanza di un mese dal voto statunitense, proponiamo qualche spunto di riflessione meno influenzato dall’immediatezza.

Le elezioni Usa sono la sconfitta di Trump

Joe Biden non rappresentava certo un avversario impossibile per Donald Trump. Anziano, con poco carisma, la sua candidatura era stata l’esito di compromessi tra le varie anime dei democratici. Fino a pochi mesi prima delle elezioni, tutto, a partire dai dati dell’economia, lasciava presagire una conferma del Presidente uscente.

Lo scoppio della pandemia ha improvvisamente cambiato, negli Usa come in tutto il mondo, la scala delle priorità e dei valori nel sentiment delle persone e, conseguentemente, nelle agende delle forze politiche. Gli slogan e i tweet hanno lasciato il posto alla ricerca di analisi serie e credibili su quanto stava accadendo e sulle dimensioni reali che la minaccia del Covid rappresentava per il mondo intero.

Le certezze sono state sostituite dalle paure, la solidarietà è apparsa condizione per la stessa sopravvivenza, la necessità della collaborazione tra i popoli è subentrata agli atteggiamenti isolazionisti. Insomma, un ribaltamento anzitutto culturale che è stato colto dalla politica di tutto il mondo, come nel caso dell’Unione Europea, che ha – sia pure tardivamente – ribaltato il proprio approccio burocratico e rigoristico, segnando un indubbio progresso sul piano della propria unità politica.

Trump non ha colto i veri segnali di questo nuovo pericolo, insistendo su contenuti e toni che gli hanno ulteriormente inimicato la parte già ostile dell’opinione pubblica americana, insinuando dubbi anche in molti di coloro che lo sostenevano. Questo percorso, tuttavia, ha segnato l’inevitabile epilogo di quattro anni di esasperazione dei conflitti interni alla società statunitense.

In questa strategia della divisione sta la vera sconfitta di Trump, non nel Covid, che ne ha solo evidenziato la inadeguatezza a costruire una America più forte.

Ero presente a Washington il 19 gennaio 2016, quando Trump, invece che cercare, come tutti i suoi predecessori, di riconciliare il popolo dopo l’aspra competizione elettorale, divise in due il Paese, mettendo da una parte i buoni e gli onesti, dall’altra cattivi e corrotti, in un misto di populismo e sovranismo senza precedenti.

Trump è stato il primo presidente che ha esasperato le spaccature esistenti nella società americana, allargando il solco tra classi e schieramenti e facendo di questo la cifra, anche comunicativa, della propria presidenza. Questo atteggiamento è continuato per tutti i quattro anni del suo mandato presidenziale, esercitato all’insegna dei tweet, nella continua esasperazione di tensioni sociali, conflitti economici, diffidenze tra gruppi etnici.

Le elezioni Usa ci restituiscono oggi una società ancora più profondamente spaccata. La frattura non è più tra ricchi e poveri: come osserva Will Wechsler dell’Atlantic Council, in un interessante e lucido articolo scritto all’indomani delle elezioni, quando ancora non era stata assegnata la vittoria a Biden, oggi la società americana è profondamente divisa tra classi, territori, gruppi etnici, generi, religioni, culture.

Anche l’altissima affluenza alle urne, prima che una grande prova di partecipazione democratica, è stata la una ulteriore dimostrazione di questa profonda spaccatura. Ha votato il 66,9% degli americani, la più alta percentuale da 120 anni, ma ciò non è accaduto perché gli elettori si sono improvvisamente appassionati alla politica, ma perché essi hanno avvertito l’urgenza di sconfiggere l’avversario.

Chi temeva con terrore che Trump potesse continuare a rappresentare gli Usa contro chi voleva la continuità in nome dell’America First: in altre parole, un voto contro, prima che un voto per, rivelatosi fatale proprio per colui che aveva basato il proprio mandato presidenziale sulla logica dello scontro e non sul confronto democratico.

Anche la strenua resistenza rispetto al riconoscimento della vittoria dell’avversario (già preannunciata e minacciata, peraltro, prima delle stesse elezioni) ha rappresentato il segnale della incapacità strutturale di Trump ad accettare qualsiasi tipo di dialettica

Da questo atteggiamento autolesionistico di Donald Trump ha tratto tutti i vantaggi possibili il vincitore Joe Biden, cui si addice il low profile che lo ha premiato di fronte agli atteggiamenti sempre arroganti e sopra le righe del Presidente uscente.

Insomma, prima ancora di una vittoria di Biden, le elezioni Usa decretano impietosamente la sconfitta di Trump.

Prima puntata di una serie di approfondimenti sulle elezioni Usa di Paolo Alli

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