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Phisikk du role – Ministeri chiave, Brunetta e la Pa al tempo del Covid

Renato Brunetta torna alla Pubblica amministrazione dieci anni dopo (e al tempo di Covid e del Recovery, che ne hanno moltiplicato la percezione di essenzialità). È una terra per molti aspetti incognita, ma servizio essenziale per lo Stato. La rubrica di Pino Pisicchio

Stimo Renato Brunetta, non solo per il suo pedigree politico, con ascendenze lib-lab, e la sua competenza che mischia esperienza istituzionale e accademia, ma anche per quella pervicacia, al limite della cazzimma napoletana (che per un uomo della laguna veneta non è proprio cosa abituale), che mette nell’azione, qualunque cosa faccia.

Il suo ritorno al governo in quel dicastero che lo incistò nella memoria collettiva per la guerra ai “furbetti del cartellino”, è la prosecuzione di un lavoro interrotto 10 anni fa. La Pubblica amministrazione dieci anni dopo (e al tempo di covid e del Recovery, che ne hanno moltiplicato la percezione di essenzialità) è una terra per molti aspetti incognita.

Nell’immaginario del popolo italiano non è solo il Moloch mostruoso e dissipatore che umilia le nostre vite civili (qualche volta anche le vite tout court), divertendosi con giochi labirintici e astrusaggini linguistiche autoreferenziali. Per la gente la Pa è anche le coorti di dipendenti sfaccendati, stile, appunto, furbetti del cartellino, che si espandono metastaticamente in un corpo già di per sé ipertrofico. E qui è la sorpresa: i dipendenti dello Stato in Italia sono pochi. Almeno nel raffronto con gli altri Paesi europei. Infatti i nostri dipendenti pubblici sono poco più del 13% del totale della forza lavoro, a fronte della media Ocse del 17,7% e del 16% europeo. Guardando da vicino le performance dei singoli Stati vedremo che il centralismo statale francese impiegherà quasi il 22% di tutti lavoratori, ma ancora di più faranno i paesi scandinavi, come la Norvegia (30,34%), la Svezia (28,83%), la Danimarca (28%).

La Spagna ha il 15% di impiegati statali e l’ex sodale europeo Regno Unito, il 16%. Meno del 13,4% italiano fanno la Germania (10%) e l’Olanda (13%). Insomma, l’Italia che pensiamo tutti bloccata nel fermo-immagine di Checco Zalone aedo del posto statale, si scopre che ha meno colletti bianchi, addirittura, degli Usa, patria riconosciuta del liberalismo che fa fatica a mettersi sul groppone il dipendente statale.

Se ciò non bastasse siamo vicini ad un esodo di massa, causa pensionamento di svariate decine di migliaia di pubblici impiegati. Proprio adesso che occorrerà il massimo sforzo per la ripresa dopo il tempo drammatico segnato dal Covid, in una fase in cui il presidio del funzionario pubblico diventa fondamentale al fine del necessario controllo sull’impiego delle importanti risorse che l’Europa e lo Stato mettono a disposizione per la ripartenza. Allora questo diventa un tempo decisivo per la Pa italiana, una grande opportunità per operare una transizione epocale verso la cultura digitale e il superamento del modello “monsu’ travet”, conficcato nell’immaginario nazionale anche oltre le responsabilità effettive del funzionario statale (che alla fine resta l’avamposto obbligato dello Stato italiano, nel suo bene e nelle sue insufficienze), per disegnare una modellistica nuova.

Moderna, professionalmente attrezzata e capace di quella necessaria empatia nei confronti del cittadino che paga le tasse ed esige servizi. Formazione globale, come parola d’ordine, per rilanciare lo Stato presso i suoi cittadini. Che sono, talvolta occorre ricordarlo, i padroni di casa: il popolo sovrano. Perché, come ben sa il ministro Brunetta, i rappresentanti di quel popolo, i politici eletti, e i pubblici impiegati sono chiamati insieme (articolo 54, secondo comma della Costituzione) ad adempiere al proprio ufficio con “disciplina e onore”. Laddove disciplina, che viene dal latino “discere”, sta a significare “imparare” e dunque acquisire competenza. Tema che sembra (grazie a Dio) tornato di moda nell’anno di Draghi. Che non è roba da calendario cinese. Auguri di cuore, ministro Brunetta.

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