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Trump, addio. Norquist svela il nuovo Elefantino. E su Salvini…

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A tu per tu con Grover Norquist, presidente dell’Americans for Tax Reform, guru anti-tasse del mondo conservatore Usa. Trump? Andiamo avanti, vi dico i tre nomi che guideranno l’Elefantino. Con Biden il fisco alle stelle, ci opporremo. Salvini? Qui è più conosciuto di Meloni

Grover Norquist risponde al telefono con voce squillante. Questo ritorno all’era pre-Trump deve aver ridato smalto a una delle figure politiche più conosciute (e temute) a Washington DC. Presidente dell’Americans for Tax Reform, la lobby da lui creata quarant’anni fa con la benedizione di Ronald Reagan con una sola missione, fare la guerra alle tasse e a chiunque voglia alzarle di mezzo dollaro, è di nuovo un fiume in piena. “Questi parlano solo di Trump, e intanto c’è un governo che sta per alzare le tasse di miliardi di dollari”.

Questi chi? “I repubblicani. Non si può avere sempre e solo in mente Trump”. Già, facile a dirsi. È il cruccio più grande di Mitch McConnell, traghettare il partito Repubblicano fuori dal trumpismo, possibilmente senza troppi feriti sul percorso. “Sta cercando di distanziare il partito dalla Trump legacy, ha capito finalmente che rimanere in zona Trump non è una tattica vincente”. Beh insomma, Trump ha pur sempre preso 75 milioni di voti, facciamo notare a Norquist. Che non si scompone neanche un attimo.

“Sì, ma guardiamo agli altri numeri. La personalità di Trump non sta portando nuovi elettori al partito. Due anni fa ci ha fatto perdere la Camera. Ora il Senato. E dove lui si è esposto, abbiamo perso di 10, 15 punti di distanza con i democratici. Non possiamo permettercelo”.

Del Tycoon il presidente dell’Atr è stato un discreto supporter. Una vampata di entusiasmo per il più grande taglio alle tasse che la storia americana ricordi. Poi una lenta caduta. “Un errore dopo l’altro. Fino alle manifestazioni a Capitol Hill, le ha gestite male, e la popolarità è crollata”.

Dopotutto Norquist, 65 anni, una lunga scalata da Weston a Washington Dc attraverso le aule di Harvard e poi del Congresso, è una vecchia conoscenza dell’“altro” Partito repubblicano. Ai tempi dell’era Bush (padre e figlio) erano loro, i repubblicani, i primi a temerlo. Chiunque volesse candidarsi al Congresso doveva prima firmare un pledge, il “giuramento”, con la sua lobby: mai e poi mai alzare le tasse, a qualsiasi costo. Chi negli anni lo ha violato, si è visto travolto dalla valanga Norquist. Che non a caso un servizio di copertina del Globe Magazine dieci anni fa definiva “L’uomo più potente in America”. Con un asterisco: “*non eletto”.

Il giuramento viene ancora sottoscritto, “alle ultime elezioni lo ha firmato l’85% dei repubblicani”, ci dice lui gonfio di orgoglio. Ora è il momento di voltare pagina dall’era Trump, aggiunge. “Il moderno Partito repubblicano è fatto di una coalizione di tanti gruppi, sono strutture dinamiche, che si muovono sulla base delle votazioni al Congresso. Fisco, scuola, pensioni, qui si vede chi è repubblicano e chi no”.

La storia insegna. “Clinton ha vinto su Bush, ma due anni dopo ha perso le elezioni di mid-term. Perché? Per le tasse. E così quando Obama ha battuto McCain. Alle elezioni successive ha perso, ancora una volta per le tasse”. Anche per Joe Biden Norquist prevede una debacle al Congresso. Che oggi gli sorride a camere unite, ma fra due anni potrebbe cambiare aspetto. “Non solo per le tasse. I democratici hanno affossato l’economia in California. Biden chiama “stimolo” il decreto per il Covid, ma non è altro che uno smisurato aumento della spesa pubblica che ricadrà sulle spalle della classe media. Sta già parlando di restaurare la riforma di Obama per la Sanità pubblica. E rispunta il controllo delle armi, che ha fatto perdere a Clinton la Camera nel 1994”.

Ecco dove devono martellare i repubblicani, spiega lo zar anti-tasse. “A breve saranno rinnovati 36 governatori su 50. Ci sono le condizioni per un ribaltone, come successe a Obama”. Norquist non ha dubbi: da lì, dai governatori, arriverà il prossimo leader dell’Elefantino, una volta digerito il trauma Trump. Ci fa tre nomi: “Il governatore della Florida Ron De Santis, un politico di grande successo, l’ex governatore Rick Scott, e il governatore del Texas Greg Abbott”.

Anche in Italia un “governatore” è arrivato al governo, ma dalla Bce. Mario Draghi lo hanno sentito tutti, lo conoscono in pochi. “Vi confesso che non so molto di lui, conosco persone che ci hanno lavorato e tutti ne parlano bene”. È un altro il nome della politica italiana che scalda i cuori nel mondo ultra-conservatore di cui Norquist, a suo tempo, è stato protagonista assoluto. “Matteo Salvini, più ancora di Giorgia Meloni, è noto fra i gruppi conservatori a DC. Lo abbiamo incontrato quando è venuto da ministro, abbiamo parlato di flat tax”. Già, la flat tax, sospira. “Una sola aliquota fissa. Sarebbe un sogno”.

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