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Il mondo lacerato tra Cina e Usa. Gli scenari post-Covid del prof. Korinman

Di Michel Korinman

Formiche.net pubblica un’articolata analisi del futuro post-pandemico di Michel Korinman, Professore Emerito di Geopolitica all’Università di Parigi-Sorbona

Per l’Europa Occidentale i tempi odierni sono quelli di un ritorno del tragico nella storia. E se il COVID-19 ci angoscia, a parte per il macabro conteggio dei morti, è perché raffigura il segno di un cambiamento d’epoca. Credevamo di aver allontanato la barbarie nella misura in cui gli (ultra)liberali come gli (archeo)marxisti ci insegnavano che una soluzione economicista delle crisi era sempre disponibile nell’Occidente ideale del mondo. Nondimeno la storia d’Europa, per esempio, è certamente quella del tempo delle cattedrali ma è anche quella della guerra dei Trent’anni. Non è sorprendente che Anselmo non abbia potuto spiegare, nel 1085, la caduta del Diavolo (colui che separa, διάβολος, dia-bolos), ma si sia accontentato di elaborarne lo scenario.

All’inizio del 2021, quasi un millennio dopo, l’impossibile sembra diventato possibile. Nell’odierno scacchiere geopolitico tertium non datur: o con la Cina o con gli Stati Uniti. Il fronte occidentale, in particolare il Vecchio Continente, è, tuttavia, diviso e frammentato. È una lacerazione rappresentata plasticamente dalla Francia: il malato dell’Europa dei tempi moderni.

La Francia se ne  va

I padri fondatori dell’UE avevano previsto, anche se in modo molto complicato, la possibilità che uno Stato membro chiedesse di uscire dall’Unione, ma non che potesse disaggregarsi col rischio di implodere. Notiamo, per inciso, un paradosso che segna quest’ultimo punto, per fortuna o sfortuna, a seconda dei punti di vista: l’interesse mediatico mainstream per gli sviluppi che occorrono ai nostri vicini o partner rimane, a parte per gli incidenti straordinari o nel caso di conseguenze condivise, (molto) flebile.

Eppure, la Francia potrebbe a breve termine diventare un problema per tutta l’Europa. Ogni giorno si succedono scontri fisici e simbolici, a volte mortali, che dalla polizia alla scuola coinvolgono le autorità e le istituzioni della Repubblica. Sono tensioni che stanno usurando il tessuto sociale del Paese. Il 45% dei francesi dichiara di provare un senso di anomia, un’assenza di norme e valori comuni e condivisi, l’anticamera del nichilismo.

Un confronto con altri Stati può aiutare a ben comprendere questo dato. La Germania è una federazione di comunità storicamente ancorate (Länder) rifondata sul neocartesianesimo del “Io esporto dunque io sono” ed orgogliosa dell’integrazione più o meno riuscita della DDR; per i protagonisti della Brexit, l’Impero non ha mai cessato di esistere, ancorché attraverso l’Anglosfera (USA, UK, Canada, Australia, Nuova Zelanda) dei Five Eyes e la Great British Dream Factory” mondializzata; con il loro patriottismo a due scale – nazionale-regionale –, la presenza politicamente inimmaginabile all’estero della Chiesa di Roma e l’orgoglio del loro patrimonio paesaggistico e artistico, gli italiani resistono.

La Francia, al contrario, sembra essere un anello tanto più debole in quanto le sue élite hanno continuato dagli anni ’70 a feticizzare una concezione nazionale ereditata dalla Rivoluzione del 1789, quella dell’adesione del cittadino allo Stato, che ora è percepita sempre più come astratta e ampiamente rimessa in discussione da tre sconvolgimenti. L’irruzione dell’individualismo sessantottino; la seconda globalizzazione distruttrice dell’identità dei popoli, condotta dagli americani; l’immigrazione massiccia con la formazione di enclave territoriali “perdute”. Queste ultime sono l’espressione sempre più marcata del separatismo islamista figli diuna terza generazione di immigrati vittimista, di un elevato“indice di belligeranza” (Kriegsindex) tra giovani immigrati economicamente diseredati origini di Paesi con una crescita demografica esponenziale. L’islamismo di sinistra vede in questi“nuovi oppressi” musulmani un proletariato sostitutivo e una clientela elettorale alternativa.

Un recente sondaggio riguardante le elezioni presidenziali francesi del 2022 indica tra l’elettorato una quasi parità nelle intenzioni di voto tra i candidati Emmanuel Macron e Marine Le Pen: 52%contro 48%, tenendo conto di un margine di errore del 2%. In caso di successo della seconda, non più impossibile, ci si può attendere reazioni molto violente da parte dell’estrema sinistra, di una parte dei gilet gialli e dei black blocks, tutti convinti della necessità assoluta di fare blocco contro il fascismo, con l’assenso naturalmente discreto di ciò che resta della sinistra “tradizionale”. Un quadro tanto più paradossale se si tiene conto che un’eventuale vittoria di Marine Le Pen sarebbe probabilmente dovuta all’astensione o anche in alcuni casi al consenso ottenuto nell’ambito di settori della sinistra rabbiosamente anti-macronisti(un elettore di sinistra su due). Una situazione, questa, qualificata come “pre-guerra civile” da molti attori ed osservatori e le cui conseguenze non dovrebbero lasciare indifferenti i vicini europei. Papa Francesco, anello essenziale della Santa Alleanza immigrazionista con il capitalismo nazionale e internazionale da una parte ed i partiti di sinistra “modernizzati” dall’altra, si è inserito lunedì 15 marzo nel dibattito politico francese mettendo in guardia la Francia sui rischi del voto (“Non voglio essere sgradevole o dire al vostro Paese cosa fare; ma è inquietante”).  

Morire per Taiwan?

Mentre l’Europa e l’Occidente sono divisi al loro interno, la Cina avanza compatta per la sua strada. Antony Blinken, il Segretario di Stato americano, definisce la Cina “la più grande sfida geopolitica del XXI secolo” e ha ammesso davanti al Senato che la durezza di Donald Trump nei rapporti con la Repubblica Popolare era fondata, soprattutto per ciò che riguarda le accuse di genocidio nello Xinjiang, nel nord-ovest del Paese. Joe Biden, che aveva definito Xi Jinping un “thug (delinquente)” durante la campagna elettorale statunitense, ritiene che a Pechino non ci sia “un grammo di democrazia e avverte che la rivalità tra Stati Uniti e Cina prenderà la forma di una “competizione estrema”. Anche se il Presidente annuncia un cambio di metodo rispetto al suo predecessore, una escalation non è dunque impossibile.

In primo luogo, perché in termini di scontro il commercio e la strategia politica sono in parte collegate. L’ancoraggio della Cina al sistema commerciale costruito alla fine della Seconda Guerra mondiale con l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT)del 1947, attraverso la sua integrazione nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC, 1995) nel 2001, aveva rilevato un semplice “wishful thinking”: Washington e Bruxelles erano convinti che la Repubblica Popolare si sarebbe convertita completamente sul piano economico e poi logicamente politico. Tra i maggiori sostenitori dell’adesione, Bill Clinton aveva spiegato fin dal 1999 che erano state ottenute garanzie molto severe contro un improvviso afflusso di importazioni cinesi e che l’ingresso della Cina avrebbe incoraggiato il Paese a rispettare le regole internazionali di apertura dei mercati e relativa alla concorrenza leale.

La speranza era, naturalmente, di penetrare un mercato di 1miliardo e 400 milioni di consumatori a beneficio dell’America e dell’Europa.

In sintesi, l’Occidente si è inventato la Cina che conveniva al suo immaginario: dopo “l’implosione dell’URSS”, la marcia verso la “Chimerica” (Niall Ferguson) andava nella direzione (della fine) della Storia. Tuttavia, il regime cinese ha sviluppato una traiettoria completamente diversa: con il piano Made in China 2025 in particolare, il governo di Pechino interviene sistematicamente suimercati nazionali per promuovere e facilitare il dominio economico delle imprese cinesi.

Del resto, l’abbandono da parte della Cina, nel giugno 2020, del suo status di economia di mercato concesso dall’OMC quattro anni prima – rifiuto di Washington ed esitazioni dell’Europa – permette di imporle pesanti tasse antidumping. Tutto questo malgrado, almeno formalmente, un certo “riequilibrio delle opportunità commerciali e di affari” attraverso l’accordo di principio Cina-UE concluso a fine dicembre 2020. Per dirla chiaramente: i cinesi hanno ingannato americani ed europei perché, mentre si son impegnati in un processo di liberalizzazione, l’importanza delle loro imprese statali non ha fatto che rinforzarsi.

Questo spiega in larga parte la guerra commerciale condotta dal precedente presidente degli Stati Uniti, secondo il quale la Repubblica era uno “Stato mercantilista totalitario ” (Steve Bannon), con i trumpiani che ignorano le astrazioni della famosa trappola di Tucidide con la Cina come potenza in ascesa e gli Stati Uniti come potenza in declino che invoca la legittima difesa.

Fenomeno molto interessante, i gruppuscoli archeo-marxisti pro-cinesi, persuasi di fare eco al pensiero di Xi Jinping, convergono con i sostenitori di Make America Great Again: la guerra commerciale è, secondo loro, già il confronto strategico globale tra l’America divisa ed in declino da una parte, il “socialismo alla cinese” anti-imperialista assicurato a prevalere dall’altra; gli Stati dell’Unione Europea non avranno altra scelta che sottomettersi a Washington od integrarsi nella Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino.

Ma anche a livello militare, il rischio di sbandate sta aumentando. L’Esercito Popolare di Liberazione (APL) si prepara da più di vent’anni ad un’invasione di Taiwan (a meno di 200 km dal continente). I documenti strategici cinesi enumerano peraltro degli attacchi chirurgici su Taiwan, degli attentati politici, degli attacchi informatici, l’occupazione di isole avanzate come Kinmen, Matsu o le Pratas (Dongsha), così come un blocco marittimo e aereo della ex Formosa per costringere Taipei a negoziare. Pur consapevole che un’invasione dell’isola vulcanica di 23 milioni di abitanti, ossia la più massiccia della storia con circa 300.000 soldati, si concluderebbe – rischio di fallimento elevato mediante un blocco marittimo nell’altra direzione per anni.

Dopo un record di 380 sortite aeree lo scorso anno, il 23 gennaio, poco dopo l’investitura di Joe Biden, otto giganteschi HK6 cinesi interamente elettronici dell’Esercito Popolare di Liberazione (APL), capaci di trasportare armi nucleari, sono entrati nella zona di difesa aerea di Taiwan attraversando la linea mediana dello stretto di Taiwan, seguiti, il giorno dopo, da quindici aerei schierati a sud-ovest dell’ex Formosa, lanciando così un avvertimento muscolare alla nuova Amministrazione americana.

Allo stesso modo, sempre il 23 gennaio, i cinesi hanno simulato un attacco missilistico aria-mare contro la portaerei USS Theodore Roosevelt mentre navigava nel Mar Cinese Meridionale.

In questo contesto vi sono inevitabilmente dei “rischi di errori di calcolo” (Bill Hayton).

La Repubblica Popolare mira ormai a una capacità di attacco preventivo in Giappone o Guam, così come all’eliminazione dei satelliti americani che sono essenziali per la guida dei missili.

Ad ogni modo ciò che cambia realmente nel periodo, è che la parte cinese pensa di avere i mezzi per vincere – accelerazione nell’incremento del budget  militare (6,8%) – e che gli americani non combatteranno né per Hong Kong né per Taiwan.

Xi Jinping vuole affermarsi come il terzo grande timoniere dopo Mao Tse-tung e Deng Xiaoping (decollo economico) raggiungendo (anche con la forza) l’unità territoriale del paese edallo stesso tempo cancellando un secolo di umiliazioni occidentali.

Il centenario del Partito comunista cinese nel 2021 potrebbe, nel bel mezzo di una pandemia, costituire un punto di svolta pericoloso (alcuni analisti vedono il Mar Cinese Meridionale, dove le forze cinesi e americane si contrappongono, come un possibile primo teatro di confronto). Da quando Hong Kong è stata imbavagliata dalla legge sulla sicurezza nazionale che ha annullato definitivamente il principio di “un paese, due sistemi”, non c’è più alcun dubbio che i taiwanesi, ai quali da tempo era stato promesso uno status simile (attualmente rifiutato dall’89% della popolazione, soprattutto dalle giovani generazioni) di semi-autonomia per sedurli,  il pericolo si avvicina. Meglio: Taiwan sogna di posizionarsi come un’alternativa all’ex colonia britannica; esaspera Pechino preparandosi, attraverso l’Ufficio di servizi e scambi Taiwan-Hong Kong, a un possibile afflusso di rifugiati e attraverso il suo desiderio di accogliere le imprese che vogliono lasciare Hong Kong.

A partire dal Taiwan Relations Act (1979), gli Stati Uniti hanno praticato una politica volutamente ambigua nei confronti di Taiwan: non riconoscono la “Repubblica di Cina” come governo sovrano, ma la riforniscono di armi senza impegnarsi a difenderla in caso di invasione: la vendita di 66 caccia F-16 nell’agosto 2019 (la prima da George H. Bush nel 1992) e tre nuovi contratti (in particolare per missili prodotti dalla Boeing) dovrebbero permettere all’isola di resistere per qualche settimana, mentre la possibilità di un intervento americano rimane.

Figure di spicco Richard Haass (presidente) e David Sacks del Council on Foreign Relations chiedono la fine di questa “ambiguità strategica”, che secondo loro sarebbe il modo migliore per scoraggiare un possibile aggressore.

Il confronto Washington-Pechino, rappresenta paradossalmente una “finestra di opportunità” (Renaud Girard) che si apre nelle relazioni tra l’Unione europea e la Russia. Ci sono poche possibilità che l’alleanza con la Cina, che riguarda soprattutto l’energia, possa a lungo termine soddisfare pienamente il Cremlino che nella sua logica imperiale non può accettare il ruolo di junior partner che Pechino vuole assegnarle. I russi non si fidano del gigante demografico cinese. Per tale ragione la Germania è convinta che il Cremlino sarà incline al dialogo con l’Occidente. Ma gli europei sanno bene che Joe Biden rafforzerà ulteriormente la politica anti-russa degli Stati Uniti in nome del diritto internazionale.

Precisamente, l’UE potrebbe (come l’Austria di Bruno Kreisky tra l’Ovest e l’Est negli anni Settanta) lavorare per avvicinare Mosca a Washington e disaccoppiare i russi da Pechino. In primo luogo, facendo rivivere, alla maniera di de Gaulle, il concetto di un grande mercato continentale Russia-Europa “da Lisbona a Vladivostok” propugnato da Vladimir Putin (allora presidente del governo) al vertice economico organizzato dalla Süddeutsche Zeitung a Berlino il 25 novembre 2010; poi chiedendo chiaramente una soluzione organizzata della disputa russo-ucraina attraverso una legge di amnistia nel Donbass e un’ampia autonomia per la regione all’interno dell’Ucraina; infine rinunciando a uno scontro attraverso sanzioni (che sono particolarmente convenienti per l’America) e contro-sanzioni (dolorose per l’Europa), per non parlare del fatto che queste possono anche costituire un problema politico, come nel caso di Alexeï Navalny.

Questo orientamento avrebbe un triplice effetto. 1) L’avanguardia industriale tedesca, presente in modo schiacciante nella Federazione Russa (per esempio, Siemens, a cui Vladimir Putin ha fatto espressamente riferimento nel 2010) e riunita nella potente Camera del Commercio Estero tedesco-russa (Aussenhandelskammer) a Mosca, applaudirà. 2) L’Europa realizzerebbe quello che il primissimo Donald Trump aveva desiderato (proprio come Obama appena arrivato al potere), cioè un un reset con Mosca che l’estrema russofobia ereditata dall’antisovietismo del suo stato profondo ha impedito di portare al termine. Inoltre, mentre Joe Biden ha fatto molto dopo il suo insediamento per compiacere l’Unione Europea, quest’ultima non si è dichiarata pronta a unirsi al fronte democratico contro i regimi autoritari che il presidente americano chiede. 3) Gli europei contribuirebbe a fondare l’Occidente come un tripode nel senso stesso delle rappresentazioni russe: America, Europa, Russia.

In questo contesto, il gasdotto Nord Stream 2, progettato per raddoppiare la capacità di trasporto del gas sotto il Mar Baltico, che è quasi completato, è sostenuto in Germania dal presidente Frank-Walter Steinmeier, dal ministro degli esteri Heiko Maas, interi settori della CDU e l’intera SPD (tra cui l’ex cancelliere Gerhard Schröder, presidente del consorzio Nord Stream AG e del consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera russa Rosneft – sotto sanzione occidentale – come capo lobbista), il Land del Mecklenburg-Vorpommern e, più in generale, tutti i capi di governo dell’Est (!), l’ultradestra Alternative für Deutschland; al contrario, non lo vogliono i polacchi, i baltici e gli ucraini che lo percepiscono come una manovra di aggiramento; un riavvicinamento euro-russo potrebbe permettere di concludere questa guerra geo-economica che va avanti dal 2018 con un metodo “creativo” (Steven Pifer): aumento del volume di gas che Gazprom pompa attraverso l’Ucraina e prolungamento del periodo contrattuale tra Russia e Ucraina.

Tutto questo senza essere ingenui e rafforzando la deterrenza informatica: i cyber hacker che hanno rubato i documenti dell’Agenzia europea dei medicinali (EMA, Amsterdam) all’inizio di dicembre 2020 li hanno poi manipolati e pubblicati su un forum internet russo, tra l’altro, in modo da rompere la fiducia del pubblico in Pfizer (americana)/BioNTech (tedesca) e Moderna (americana); la campagna di Mosca contro i vaccini occidentali sarebbe guidata dai servizi russi. E poi: dovremmo interrogarci su una possibile corsa agli armamenti: siluro nucleare Poseidon, aliante ipersonico Avangard, laser Peresvet in grado di abbagliare i satelliti, missile ipersonico Kinzhal e soprattutto il missile nucleare subsonico Bourevestnik con portata praticamente illimitata e in grado di schivare le difese antimissile; ma tenendo conto da un lato della contrazione del PIL russo del 3,1% nel 2020 e l’interesse ampiamente dimostrativo (strumento di negoziazione) di queste armi miracolose dall’altro. Inoltre, il 29 gennaio, Putin non ha firmato l’estensione (per cinque anni) del trattato New Start russo-americano sul controllo delle armi nucleari?

Questo è probabilmente l’unico modo per evitare un grande scontro sino-americano.

Il disprezzo asiatico per l’Occidente

Il mondo asiatico sembra avere piena contezza delle difficoltà e delle divisioni interne all’Occidente. In Asia, i profeti della decadenza occidentale sono in voga. Molti osservatori, come l’ex diplomatico e professore di Singapore Kishore Mahbubani e il suo collega di origine indiana Parag Khanna, fanno una valutazione dura: segnati da uno squilibrio sociale tra i doveri e i diritti dell’individuo e dall’assenza di un “tecno-civismo”, il Nord America e soprattutto l’Europa fanno fatica a misurarsi con le buone pratiche dell’Estremo Oriente; paesi come Singapore, Taiwan e Vietnam sono praticamente incontaminati da mesi; anche i paesi che hanno vissuto ondate di contagio – Giappone, Corea del Sud e Thailandia – sono molto lontani da quanto si può vedere in Occidente. Gli asiatici, inoltre, sono sempre meno conformi ai criteri occidentali. L’ascesa della Cina, sebbene temuta, sancirebbe la restaurazione di un ordine plurimillenario in cui l’egemonia occidentale sarebbe un’anomalia.

In effetti, l’Occidente stesso sembra quasi rassegnato di fronte a questa sfida. Non è solo una questione di salute che il Forum economico mondiale si sposterà da Davos a Singapore questo agosto. Ed è all’insegna della de-occidentalizzazione, Beyond Westlessness, che si è tenuta a febbraio la conferenza speciale (virtuale) sulla sicurezza di Monaco, anch’essa rinviata a causa della pandemia. Certo, gli asiatici hanno buone ragioni per percepirci come una specie di selvaggio West senza regole, indipendentemente da questa valutazione di base.

Da questo punto di vista, il disimpegno americano del 23 gennaio 2017 dall’accordo di partenariato trans-pacifico (TPP) firmato da 12 paesi dell’Asia-Pacifico e interpretato come un contrappeso alla crescente influenza della Cina sarà stato certamente il principale errore del mandato di Donald Trump, poiché equivaleva a un abbandono della regione da parte degli Stati Uniti, i cinesi promuovono in direzione opposta il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) firmato il 15 novembre 2020, il più grande accordo al mondo (30% del PIL mondiale, più di 2,2 miliardi di abitanti) : Dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN); Cina, Giappone e Corea del Sud ma anche Australia e Nuova Zelanda. Il blocco del sud-est asiatico (per non parlare dei suoi membri vassalli come la Cambogia e il Laos), tuttavia, rifiuta di scegliere tra Pechino e Washington e non vuole essere coinvolto in una nuova guerra fredda.

L’Occidente cerca di imporre i suoi valori morali, ma non li segue. Per esempio, come per la politica genocida di Pechino nello Xinjiang contro gli uiguri di lingua turca presentata dal regime come un insieme di misure per “ridurre la povertà estrema”: campi di concentramento per un milione di persone su undici (secondo i cinesi nei centri di formazione), sterilizzazione e aborti forzati, deportazione interna per abbassare la densità della popolazione uigura nella sua culla storica e distruggere le strutture familiari e di villaggio del gruppo etnico, distruzione di migliaia di moschee e tombe) . L’antropologo tedesco Adrien Zenz è stato dal 2016-2018 il pioniere della rivelazione di questa politica al termine di una coraggiosa inchiesta che gli è valsa una violenta campagna di diffamazione orchestrata dalla Repubblica Popolare. Quarantuno paesi, tra cui l’Australia per voce di Marise Payne, ministro degli Esteri, hanno denunciato il trattamento riservato agli uiguri; Londra ha accusato Pechino di “barbarie”; la Francia ha indurito le sue critiche. Ma secondo gli asiatici, c’è una buona probabilità che le reazioni indignate dell’Occidente non vadano oltre le sanzioni contro individui o, se necessario, entità.

Il caso olandese parla da solo: già nel 2020 l’Aia rinuncia per paura di ritorsioni cinesi a ridurre le importazioni di abbigliamento prodotto da lavoratori forzati uiguri dello Xinjiang – un quinto del cotone prodotto nel mondo (motivo per cui l’amministrazione di Donald Trump aveva vietato tutte le importazioni di cotone dalla regione in dicembre, con gli importatori che devono dimostrare la mancanza di legami con la “schiavitù”). A fine febbraio 2021 la Seconda Camera riconosce (primo parlamento in Europa) un “genocidio” cinese, ma Stef Blok, ministro degli Esteri del governo provvisorio olandese, accusa Pechino solo di “crimini diffusi contro l’umanità” (l’ONU deve decidere).

Più in generale, l’economia dell’Europa occidentale, sostiene la Camera di Commercio Europea in Cina, è incomparabilmente più legata alla Cina – 16% del commercio estero nel 2019 – di quanto non lo fosse con l’URSS boicottata nel 1980; un boicottaggio delle Olimpiadi avrebbe conseguenze formidabili per queste relazioni. Il coronamento del processo è che gli europei si danno la coscienza pulita dando per scontato l’impegno in questo contesto di “fare sforzi sostenibili e continui” per ratificare le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Inoltre, la Repubblica Popolare non è stata rieletta per la quinta volta (insieme a Russia e Pakistan, ma non l’Arabia Saudita respinta) al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, il che la rende immune da un’indagine sulla situazione dei diritti umani al suo interno?

Guerra dei vaccini

Anche sul fronte dei vaccini, l’Occidente ha mostrato tutti i suoi limiti e debolezze.

Con la famosa rivista medica The Lancet che ha stabilito il 2 febbraio che il vaccino è efficace al 91,6%, Vladimir Putin può vantarsi del “riconoscimento internazionale” finalmente accordato allo Sputnik V (un omaggio al primo satellite messo in orbita nel 1957 dall’URSS) dopo una “campagna per screditarlo”. I russi erano comprensibilmente furiosi quando la presidente del consiglio di amministrazione dell’EMA, Christa Wirthumer-Hoche, ha parlato la sera del 7 marzo di “roulette russa”. Tuttavia: le autorità della Federazione Russa (dove i morti per la pandemia sarebbero da tre a sette volte più numerosi di quanto annunciato ufficialmente), se affermano di aver ricevuto preordini per più di un miliardo di dosi, evocano piuttosto vagamente 1,5 milioni di iniezioni in tutto il mondo e poi le dosi potrebbero non essere sufficienti per vaccinare la propria popolazione (che è in gran parte vaccino-scettica).

Mentre l’UE non riconosceva l’affidabilità del vaccino russo, si divideva su quelli già autorizzati al suo interno.

La crisi di affidabilità (organizzata?) del vaccino di AstraZeneca (che annuncia ulteriori ritardi) da metà marzo in poi ha conseguenze europee e mondiali. Sospensione in Danimarca, Islanda e Norvegia (giovedì 11); Bulgaria (venerdì 12); Irlanda e Paesi Bassi (domenica 14); Germania, Francia, Italia, Spagna, Slovenia, Portogallo e Lettonia (lunedì 15); Svezia (!) e Cipro (martedì 16). Questo solleva tutta una serie di domande. Gli inglesi che hanno usato massicciamente questo vaccino e stanno accelerando la vaccinazione di AstraZeneca – 11 milioni hanno ricevuto due iniezioni su 24 entro il 16 marzo – sono stati criminalmente imprudenti? Come ha potuto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dire il 15 marzo che i paesi dovrebbero continuare a vaccinare con AstraZeneca?

L’EMA (seguita immediatamente dall’UE) non ha approvato il vaccino venerdì 29 gennaio?  Gli europei volevano punire AstraZeneca per le sue argomentazioni e i ritardi di consegna o anche (da vedere) Londra dopo la Brexit? C’è stato un nuovo allineamento dei francesi (e poi degli italiani) sulla Germania – essa stessa interessata a favorire l’americano-tedesco Pfizer/BioNTech che peraltro è molto più caro (circa 16 euro contro 2,80 la dose) e che ha finanziato la società tedesca per quasi 400 milioni di euro -, che farebbe ripartire la “questione dell’Europa”, mentre Berlino si rallegra della conclusione di un accordo tra il gruppo americano Johnson & Johnson e il laboratorio tedesco IDT Biologika?  

Cosa fare con le 300.000 dosi di AstraZeneca prodotte dal Serum Institute of India e spedite in Somalia attraverso l’iniziativa Covax, che mira a garantire una distribuzione equa dei vaccini in 200 paesi? Per non parlare di Thailandia, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, che hanno ritardato il lancio delle loro campagne di vaccinazione (il Venezuela, che utilizza Sputnik V e Sinopharm, non permette ad AstraZeneca sul suo territorio). Di conseguenza, la il Russian Direct Investement Fund, che sostiene di essere pronta a fornire vaccini a 50 milioni di europei a partire da giugno, ha annunciato (senza nominare i gruppi) di aver concluso accordi di produzione “con aziende in Italia, Spagna, Francia e Germania” in attesa dell’approvazione dello Sputnik V da parte dell’Unione Europea. Il punto culminante: una produzione di Sputnik V da parte della Germania è sempre più probabile, con un certo numero di Länder che chiedono un ordine il più presto possibile (Baviera, Sassonia, Turingia).

L’Unione Europea si è divisa anche di fronte alla Belt and Road Initiative (BRI) della Cina. Alcuni Stati membri dell’UE e della NATO non hanno mancato di dare seguito, soprattutto sul versante marittimo, alla BRI, che mira a un eventuale controllo cinese di molti porti europei, o “gateway” in Europa. Circa il 10% della capacità dei terminal container europei è in mani cinesi, con la soglia di investimento che alla fine salirà al 25 o addirittura al 50%. Una presenza visibile nel Mediterraneo dal Pireo a Valencia, via Marsiglia, Malta o Salonicco, sulla costa atlantica (Bilbao, Nantes), nella Manica (Le Havre) e nel Mare del Nord (Dunkerque, Zeebrugge, Anversa, Rotterdam. Una strategia di meshing metodica che non può quindi essere ignorata.  

All’inizio di dicembre 2018 Pechino ha rafforzato la sua presenza già consistente in Portogallo, la posizione geografica del paese lo rende il punto più vicino per le navi dirette in Europa che utilizzano il canale di Panama, attraverso un accordo di cooperazione nel quadro della BRI. La Grecia ha aderito dall’aprile 1919 (vertice di Dubrovnik) al China-Central and Eastern Europe Business Forum che si è evoluto in un formato 17+1 con 12 stati membri dell’UE e cinque non membri, molti fanno anche parte della NATO. Nel novembre 2019, Xi Jinping èstato accolto a braccia aperte dal primo ministro greco conservatore Kyriákos Mitsotákis.

L’obiettivo è quello di accelerare il collegamento delle rotte cinesi verso l’Europa attraverso la Grecia; In questo paese che ha bisogno di investimenti, il presidente cinese ha poi visitato il porto del Pireo, un hub logistico, un “punto di transito tra la Grecia e l’Asia”, un “marchio UE” per i prodotti cinesi, dove il traffico di container è quintuplicato dalla fine del 2008 (concessione delle banchine 2 e 3 per un periodo rinnovabile di trentacinque anni a Cosco), dove l’autorità portuale è passata sotto bandiera cinese nel 2016 e che, nella mente dei cinesi, è destinato a diventare il primo porto europeo. I sindacati greci ricordano ironicamente l’azione della “troika” dei creditori creata nel 2010 per controllare e rifinanziare il paese attraverso prestiti condizionati all’aggiustamento strutturale e percepiti come il braccio armato di un’odiata Germania. Investimenti che forse hanno dato i loro frutti quando la Grecia ha usato il suo veto all’ONU per la prima volta nel 2017 per impedire una dichiarazione dell’UE che criticava la Cina sui diritti umani.  

Ma forse l’evento più significativo tra i due è stato il memorandum d’intesa “non vincolante” Italia-Cina a fine marzo 2019, con Roma che è diventata la prima capitale del G7 ad aderire al faraonico progetto BRI. Firma solenne alla presenza di Xi Jinping, del presidente della Commissione nazionale cinese per lo sviluppo He Lifeng, di Giuseppe Conte allora presidente del Consiglio (I, Lega e Movimento Cinque Stelle) e del suo ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio. Un totale di 29 contratti da 5 a 7 o addirittura 20 miliardi di euro (Sole 24 Ore), due terzi istituzionali e un terzo imprenditoriali.

Tra questi, i gruppi Ansaldo e Danieli, le partnership tra il gigante cinese del turismo Ctrip e Aeroporti di Roma e Trenitalia, investimenti inizialmente limitati nei porti strategici di Genova e Trieste (crescita dell’Europa centrale) dove si evidenzia un “passaggio naturale e ultra-rapido” verso l’Europa centrale dal Canale di Suez, e persino collaborazioni tra televisioni pubbliche cinesi e italiane e agenzie stampa. È comprensibile che, date le riserve sollevate a Washington e Bruxelles e anche all’interno del governo “populista” dell’epoca, una ventina di altri accordi siano stati cancellati.

E che l’artefice del protocollo d’intesa, il sottosegretario italiano all’Economia, Michele Geraci (che ha insegnato per dieci anni in Cina e parla cinese), vicino alla Lega (che era divisa e frenava), fervente difensore della causa cinese a Roma, ha dichiarato di essere consapevole non solo dell’opportunità ma anche del rischio. Questo probabilmente spiega perché il dossier cinese è stato successivamente insabbiato. Inoltre, se China Merchants Group, a lungo ritenuta da molti osservatori l’interlocutore privilegiato per Piattaforma Logistica di Trieste (PLT), è stata eclissata nel settembre 2020 dalla tedesca Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla) con una quota del 50,01%, i cinesi si attengono agli accordi passati e mantengono la loro pressione sui porti italiani. Le malelingue ricorderanno un “gusto dell’infedeltà” (Sergio Romano) peculiare dell’Italia in materia di politica estera.

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