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C’è la tregua ma in Iran salta in aria una fabbrica. Produceva droni?

A pochi giorni dal cessate il fuoco tra Israele e Palestina, va in fiamme un’industria di fuochi d’artificio a Isfahan, capitale del tappeto persiano, che in realtà avrebbe coperto la produzione di droni. Dello stesso tipo di quello abbattuto dall’Iron Dome?

Isfahan è una città dell’Iran centrale nota al mondo per la produzione di tappeti persiani e a una ristretta cerchia di osservatori perché il suo territorio custodisce la Sepahan Nargostar Chemical Industry, che formalmente produce fuochi di artificio e altri prodotti chimici, ma darebbe copertura a una fabbrica di droni militari della Iran Aircraft Manufacturing Industrial Company (Hesa).

Si tratta di strumenti dall’alto valore tattico e tecnologico, in grado di cambiare le capacità militari di un paese, e per questo il sito di produzione viene protetto. Anche perché all’interno della Repubblica islamica sono già accaduti episodi in cui impianti delle Forze armate sono finiti vittime di sabotaggi o strani incidenti.

Come quello di domenica 23 maggio a Isfahan, appunto: nove persone sono rimaste ferite quando all’interno di quello stabilimento misterioso s’è sviluppato un incendio, dovuto a un’improvvisa esplosione. I testimoni presenti a Shahin Shahr, la piccola cittadini in cui si trova l’impianto, raccontano ai media iraniani che c’è stato “un boato”, poi hanno visto “fiamme rosse salire fino al cielo” e poi ancora altri boati.

Non sfugge una coincidenza tra l’apparente incidente e il contesto internazionale. Nei giorni in cui si combatteva l’ultimo scontro armato tra Israele e Hamas hanno fatto notizia due fattori: il primo, Hamas è sembrata più preparata grazie alla quantità enorme di missili che è stata in grado di sparare contro lo stato ebraico; secondo, collegato, che oltre a quei missili (la cui tecnologia è altamente migliorata) ha usato anche droni.

Missili e droni usati da Hamas e dagli altri gruppi armati della resistenza palestinese sono entrambi di derivazione iraniana. Non è una novità: i Pasdaran hanno da sempre rifornito, assistito, finanziato, l’armamento dei partiti/milizia regionali che possono interpretare le proprie esigenze strategiche. Tra queste c’è combattere Israele; per questione ideologica, per necessità geopolitica. Hamas è una di queste milizie, che negli ultimi dieci anni – vale a dire da quando il conflitto siriano ha gettato ulteriore caos nella regione – ha ricevuto ancora più aiuti.

Stesso discorso, moltiplicato per diverse volte, vale per la libanese Hezbollah (che è tecnicamente ancora in guerra con gli israeliani dal 2006) e per le milizie sciite irachene o gli Houthi dello Yemen. Israele ha costantemente combattuto i trasferimenti di armamenti iraniani operati dai Pasdaran, bersagliando le supply chain delle milizie sia in Siria che in Iraq. Il motivo è che non vuole che i gruppi ricevano tecnologie migliori perché sa che prima o poi potrebbe diventarne bersaglio – quanto successo nei giorni scorsi ne è la conferma evidente.

Non più tardi di giovedì 20 maggio, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha mostrato pubblicamente i resti di un drone di fabbricazione iraniana abbattuto dall’Iron Dome dopo essere entrato nello spazio aereo dello stato ebraico probabilmente dalla Siria (nella foto, mentre aveva a fianco a sé il ministro degli Esteri tedesco). Altra caratteristica degli ultimi scontri con Hamas: alcuni attacchi contro Israele sono arrivati dal territorio siriano e dal sud del Libano.

È possibile che l’incidente nella fabbrica di Isfahan sia legato a certe evoluzioni? Sì. Risposta articolata: non sarebbe la prima volta che Israele, attraverso operazioni clandestine condotte dal Mossad, compie sabotaggi in territorio iraniano. Tra i bersagli sia personalità, come gli scienziati del programma nucleare (l’ultimo fu Mohsen Fakhrizadeh nel novembre 2020), sia siti produttivi e centri di ricerca in cui la Repubblica islamica evolve la propria tecnologia militare.

Teheran a volte minimizza e classifica tutto come incidenti (lo ha fatto per una serie misteriosa di fatti che hanno colpito varie tipologie di impianti l’estate scorsa); altre volte sfrutta le vicende per spingere la propaganda, accusando “i sionisti” di attività aggressive e contro il diritto internazionale. L’equilibrio è delicato, perché nell’immagine di potenza che i Pasdaran vogliono dare di sé, mostrarsi vulnerabili è un problema; allo stesso tempo cercano di indurre le collettività iraniane ad affidarsi a loro davanti agli attacchi del nemico.

Questioni importanti a poche settimane dal voto presidenziale del 18 giugno: momento cruciale dove si deciderà il futuro dell’Iran. E mentre i negoziatori iraniani – che secondo il presidente Hassan Rouhani si muovono sotto indicazioni dirette della Guida Suprema Ali Khamenei – stanno per chiudere un accordo di ricomposizione dell’accordo sul nucleare. Accordo che prevede il rientro degli Stati Uniti nell’intesa Jcpoa.

La cosa viene vista da Israele come una minaccia, perché garantirebbe l’eliminazione delle sanzioni Usa contro l’Iran (sebbene il segretario di Stato americano sottolinei che ancora Teheran non ha fatto step sufficienti per meritare l’apertura statunitense). Misura che migliorerebbe il livello di sviluppo iraniano – per Tel Aviv significa che migliorerebbe le capacità iraniane di sviluppare armamenti.

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