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C’è un nuovo terzetto in Medioriente. L’Iraq si ritaglia il ruolo di perno nella regione

L’alleanza tra Egitto, Giordania e Iraq è un fattore che rafforza il ruolo geopolitico dei tre Paesi nella regione. Baghdad prova a usarla come scheletro di una grande conferenza internazionale che sta organizzando per fine agosto. Con l’obiettivo ulteriore di salvare dal baratro Siria e Libano

L’Iraq sta cercando di usare l’intesa ritrovata con Egitto e Giordania come moltiplicatore delle sue ambizioni diplomatiche: l’asse a tre dovrebbe fare da colonna vertebrale alla conferenza internazionale che gli iracheni intendono ospitare a fine mese per parlare delle questioni in ballo nella regione anche attraverso la presenza (da confermare) di figure come il francese Emmanuel Macron, il turco Recep Tayyp Erdogan e il re saudita Salman, o l’iraniano Ebrahim Raisi.

L’obiettivo di Baghdad è quello di costruire attorno al paese un’immagine solida e affidabile come mediatore e attore dialogante su tutti i fronti, al fine di attirare investimenti per la ricostruzione. Allo stesso tempo guadagnare prestigio come interlocutore all’interno della regione. Fini simili riguardano l’intesa triangolare con Amman e Cairo. I tre paesi stanno procedendo nell’intenzione di stringere accordi a tre su sicurezza e cooperazione economica.

La linea segue la dichiarazione congiunta uscita dopo la (storica) visita a Baghdad del generale/presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e del re giordano Abdallah II. “Un messaggio eloquente in mezzo agli enormi cambiamenti regionali” l’aveva definito a giugno, nei giorni del summit, il presidente iracheno Barhem Saleh, che aveva incontrato insieme al primo ministro Mustafa al Khadimi, gli altri due leader.

E in effetti è questo il significato profondo dell’intesa come della conferenza in programma: il Medio Oriente è una regione turbolenta e in costante disequilibrio, dove tuttavia in profondità si sta cercando l’innesco di meccanismi di stabilizzazione. È d’altronde questo l’effetto Biden, ossia l’input dato dal presidente democratico americano che ha chiesto agli alleati regionali di evitare scontri e tensioni e favorire dinamiche dialoganti e e cooperative (anche per interesse, ossia facilitare il disimpegno statunitense). L’Iraq è su questa strada tanto quanto l’Egitto, che mentre media via Onu in Libia invia aerei anti-incendio in Grecia e si pone come interlocutore in diverse faccende regionali; allo stesso modo anche la Giordania cerca spazi diplomatici (non senza interessi diretti, aspetto comune d’altronde) come dimostrato nella distensioni delle relazioni con Israele.

Tra i temi che i tre hanno in ballo su tutti c’è la spinta per facilitare una partnership economico-commerciale (tutti soffrono gli effetti della pandemia, tutti hanno bisogno di aiuti), ma anche idee per un post-bellico in Siria, in Libia e in Yemen, una soluzione al conflitto israelo-palestinese, la condivisione di informazioni e azioni sul tema sicurezza. Sia l’Egitto che l’Iraq e la Giordania sono in effetti oggetto di dinamiche connesse all’estremismo islamico baghdadista, e tutti i tre hanno collaborazioni in materia di lotta al terrorismo con gli Stati Uniti e le missioni Nato.

L’allineamento in corso è tutt’altro che banale, basta pensare che prima di giugno, il re giordano aveva visitato l’Iraq nel 2019 per la prima volta nell’ultimo decennio; Sisi è stato il primo capo di stato egiziano a Baghdad delle ultime tre decadi – ossia dopo l’invasione del Kuwait ordinata da Saddam Hussein, anno in cui l’Arab Cooperation Council, ACC, che i tre paesi avevano formato con l’allora Yemen del Nord venne sciolto. Il quadro sopra alla cooperazione ha carattere strategico e valore geopolitico.

L’Iraq di Khadimi per spingere i propri obiettivi cerca sponda tra i principali partner regionali degli Stati Uniti (val la pena ricordare che Egitto e Giordania furono i primi due paesi a stabilire relazioni con il nuovo Iraq post invasione americana del 2003). Tutto mentre Baghdad subisce dall’interno la potente influenza delle milizie sciite collegate ai Pasdaran. In questo, il governo iracheno ha già cercato di porsi come mediatore tra Arabia Saudita e Iran, e in precedenza tra Iran e Stati Uniti, e ora – forte dell’allineamento con Amman e Cairo – prova a capitalizzare queste attività nel momentum che la conferenza regionale potrebbe portarsi dietro.

Neil Quilliam della Chatham House definisce il blocco a tre “gli strani compagni della regione”, mentre i tre leader si auto-definiscono “al Sham al Shadid”, il Nuovo Levante. Quello che è tra i fattori geopolitici più interessanti in corso nel Medio Oriente, non può portarsi dietro l’attenzione dell’Italia, che ha nei tre interessi più o meno diretti; visto che tra pochi mesi guiderà il contingente Nato in Iraq e dato che gode di rapporti buoni col Cairo e con Amman. Per altro, come da tradizione storica con l’ACC, il raggruppamento potrebbe essere aperto a nuovi membri, fa notare in un’analisi la Brookings Institution, a cominciare dai quei pezzi indispensabili per parlare di Sham, ossia Siria e Libano.

A giugno, il dipartimento di Stato americano aveva dedicato uno statement per sottolineare l’importanza (e il sostegno) dell’iniziativa a tre: aspetto anche questo non banale. Sebbene l’eventuale inclusione della Siria di Bashar el Assad potrebbe complicare questo appoggio americano (dato che per gli Usa il rais siriano è accusato di crimini di guerra), il progetto del “nuovo Levante” potrebbe diventare un mezzo per veicolare la ricostruzione necessaria in Siria e per aiutare il  Libano a uscire dal baratro. Altri due tasselli di una politica regionale ampia e negoziale che l’Iraq cercherà di solidificare nella conferenza in organizzazione.

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