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La destra, il centro e un’alleanza che non decolla. Perché?

La destra ha un avvenire soltanto se si fonda su una strategia culturale in grado di incrociarne una politica. Gli interessati dovrebbero convergere verso uno stesso obiettivo, ambizioso, difficile, ma certamente possibile: rinnovare profondamente l’Italia, la politica, la società per far rinascere una comunità nazionale che da tempo ha perduto la memoria di se stessa. Il commento di Gennaro Malgieri

La finzione dell’unità del centrodestra non durerà a lungo. Non bastano gli incontri conviviali, i baci, gli abbracci ed una parvenza di concordia tra le componenti della coalizione per nascondere le lacerazioni profonde tanto nei diversi soggetti innanzitutto che in quello che sarebbe meglio definire un “cartello elettorale” mostratosi inevitabilmente fragile e disfatto in occasione delle competizioni elettorali, come è accaduto di recente.

Ci vuole ben altro per dare vita a un progetto che assomigli a un “partito unico” pur senza esserlo formalmente, che tuttavia sia animato da un comune sentire e si proponga come realistica alternativa politica al raggruppamento delle sinistre e al confuso centrismo con il quale Forza Italia allegramente civetta, mentre la Lega, ritagliatosi il ruolo di partito di “lotta e di governo” compete con Fratelli d’Italia per conquistare il primato dell’incerto mondo sovranista e/o populista in evidente decadenza.

Non è un mistero, messo in luce dalle amministrative, che i tre soggetti non hanno nulla in comune se non la difesa delle rispettive doti elettorali con le quali intendono campare di rendita assemblandole nei momenti quando si vota, ma rinchiudendole in inviolabili forzieri nella vita politica ordinaria. Insomma, al centrodestra che raramente ha funzionato negli ultimi ventisette anni – come Polo delle libertà, come Casa delle libertà, come Popolo delle libertà – raccogliendo molti consensi, ma spendendoli assai male, manca una unitaria visione del mondo, e più in particolare della politica. Non ha una strategia, non un metodo, non una passione culturale comune da farli assomigliare ad una “associazione” votata al cambiamento delle strutture del sistema e alla costruzione di nuovi assetti economici, istituzionali e civili.

Gli elettori che, a vario titolo, si riconoscono nel centrodestra, non vogliono – almeno si presume – una combinazione di sigle che, appartate e diffidenti, si ritrovano in altre “famiglie politiche” soprattutto in Europa. E, naturalmente, quando devono decidere su questioni nodali le scelte sono quasi sempre contraddittorie. Nel Parlamento europeo si misura, più che in quello italiano, la tenuta del raggruppamento di centro e di destra che per comodità sta ancora “attaccato” illudendo chi crede che una aggregazione coesa possa nonostante tutto esistere.

Bisognerebbe avere il coraggio di dire che, dopo più di un quarto di secolo l’esperienza si è esaurita anche perché manca un federatore che abbia la coscienza di un’unità di destino politico in grado di superare le storture derivanti dagli egoismi gelosamente coltivati. E poi, si dovrebbe riconoscere che le classi politiche, dai militanti ai dirigenti, non s’inventano nell’imminenza delle consultazioni elettorali pescando nel mare magnum del “civismo” figure tutt’altro che rappresentative perché i partiti sono sostanzialmente incapaci di tirar fuori ed “allevare” personalità che possano competere.

La personalizzazione della politica ha prodotto i guasti che elenchiamo (e molti ne lasciamo fuori), ma soprattutto ha contributo all’affermazione di un leaderismo che non tiene conto del proselitismo, bensì soltanto della cooptazione, che si guarda bene dal discutere negli organi direttivi che se esistono sono in quiescenza, che favorisce il cambiamento dei segretari e presidenti senza passare per alcun vaglio territoriale e militante (i congressi d’antica memoria).

Immaginavamo che con l’affievolimento della figura di Berlusconi, il centrodestra, o meglio il centro e la destra, occasionalmente alleati, rivelata l’inconsistenza ideale e programmatica (solo per fare un esempio: liberale e globalista il primo, identitaria e statualista la seconda), avrebbero sciolto gli equivoci che li tengono in qualche modo legati ed avrebbero stretto un patto di non belligeranza in vista delle alleanze elettorali. Neppure questo è accaduto.

Da tempo, invece di intorcinarsi attorno a questioni di scarsa importanza, se non il centrodestra nella sua complessità, ma quanto meno la destra identitaria (sempre che sia tale, nel senso della “devozione” alla nazione ) avrebbe dovuto mettere al centro della sua politica la ricostruzione dello Stato dal quale discende l’organizzazione sociale. Che lo Stato vada ripensato e “riconquistato” ispirando l’opera riformatrice ad un’etica repubblicana fondata sulla responsabilità e sul sentimento del “bene comune” dovrebbe essere pacifico. Lo scopo dovrebbe essere quello di dare al Paese istituzioni non soltanto efficienti, ma “moralmente” coerenti con le esigenze dei tempi, modellate da riformatori consapevoli secondo un disegno nel quale i diritti di libertà si coniughino con il dovere dell’autorità di regolamentarli e difenderli.

Questa destra, intessuta di ideali politici, rappresenta una tendenza radicata nell’Italia profonda che non rifiuta aprioristicamente la modernità, ma si tiene fedele ad una visione del mondo che potremmo definire tradizionale; è “conservatrice” nella misura in cui esprime, come diceva Karl Mannheim, “una continuità storicamente e sociologicamente afferrabile, che è sorta in una determinata situazione storica e sociologica e si sviluppa in diretta connessione con la storia vivente”; è impegnata nel favorire il ritorno della politica esiliata dalla pratica partitocratica esercitata dalla classi dominanti; è riformista per vocazione e nel suo bagaglio custodisce un’ispirazione innovatrice dello Stato e delle istituzioni rappresentative, unitamente ad un europeismo non di maniera, ma sostanziato da una concezione realistica della costruzione comunitaria fondata sull’integrazione delle identità e delle culture continentali, premessa indispensabile dell’unità politica.

Questa destra è idealmente parte di un progetto comune che trascende l’alleanza politico-elettorale che la comprende. Infatti, il possibile centrodestra in prospettiva, se l’affinamento soprattutto culturale tra le sue componenti dovesse accentuarsi maggiormente (ma allo stato delle cose non ci crediamo), può essere considerato come un soggetto sostanzialmente unitario ancorché formalmente composito. Molto dipenderà dagli sviluppi del bipolarismo stesso, semmai si ricomporrà (la tendenza al proporzionalismo è forte…) ma non c’è dubbio che la tendenza è nel senso di una maggiore composizione in un quadro di più intensa compatibilità specialmente se, in tempi ragionevolmente brevi, verranno sciolti i nodi riguardanti le riforme istituzionali, un terreno sul quale le sensibilità dei soggetti del centrodestra sono diverse, ma non inconciliabili. Il nostro ovviamente è un auspicio.

Il tempo, ovviamente, dirà se la destra riuscirà a crescere al punto di realizzare non soltanto gli obiettivi legati a brevi stagioni politiche, ma a guardare oltre le contingenze per porsi traguardi più ambiziosi, ben oltre le attuali contingenze e a proseguire il cammino intrapreso.

È naturale che se ciò potrà accadere è perché nel partito-coalizione – cioè dalla forma che prenderà la destra coniugando la sua diffusione valoriale nel corpo vivo della nazione, cioè nel popolo, con la pluralità delle sensibilità dei soggetti che la compongono – ci sarà chi riuscirà a scorgere sull’orizzonte le ragioni di un impegno comune dal quale possono nascere idee nuove in grado, innanzitutto, di reagire fattivamente ad un fenomeno che ha connotati epocali: la decadenza italiana, nel contesto di quella occidentale che è di carattere morale, spirituale e culturale, che si manifesta da tempo e di fronte alla quale la politica ha voltato la testa dall’altra parte.

La destra, se culturalmente motivata, politicamente dinamica ed effettiva espressione popolare di uomini e donne non ripiegati o avviliti, ha il dovere di assumere la responsabilità di reagire con un vasto programma di modernizzazione nel quale, naturalmente, includere lo sviluppo scientifico-tecnologico; la proposta di una scuola e di una università in linea con le esigenze dei tempi senza dimenticare il ruolo di formazione spirituale e civile che devono esercitare; la lotta contro la regressione delle nascite; la difesa della vita in ogni sua fase; la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico considerandolo non alla stregua di una pur importante risorsa economica, ma come lo scrigno della identità italiana; la sfida multiculturale da raccogliere non con l’arroccamento, ma predisponendo misure che rinvigoriscano la formazione di un carattere nazionale; la difesa della nostra lingua e più in generale dell’italianità, non diversamente di quanto fanno altri Paesi europei più sensibili a quest’ultima tematica e ben diversamente attrezzati rispetto a noi.

La destra ha un avvenire, insomma, soltanto se si fonda su una strategia culturale in grado di incrociarne una politica. Questa consapevolezza dovrebbe spingere tutti gli interessati a modulare aspirazioni e comportamenti in grado di convergere verso uno stesso obiettivo, ambizioso, difficile, ma certamente possibile: rinnovare profondamente l’Italia, la politica, la società per far rinascere una comunità nazionale che da tempo ha perduto la memoria di se stessa. Popolo e libertà sono elementi storico-culturali iscritti nel codice genetico della destra. È fin troppo naturale che la sua permanenza nel perimetro nazional-conservatore non possa essere messa in discussione da nessuno, tranne da chi ha interesse a distruggerla.

Gli altri soggetti della attuale disastrata coalizione di centrodestra potranno e sapranno convivere con chi rappresenta una siffatta visione politica?

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