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Salvate la memoria del soldato Powell

L’ex segretario di Stato non può essere ricordato solo per l’episodio della fialetta all’Onu. Molto più consistente è stata la sua carriera militare, intrapresa per intero, partendo dai livelli più bassi e scalando tutti i gradini, senza scorciatoie o avanzamenti per cooptazione. Il ricordo di Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Urbino

Colin Powell è tra quelle figure internazionali che diventa chiaro quanto hanno realmente segnato un’epoca solo quando arriva, a sorpresa, la notizia della loro scomparsa.

Il ricordarli va oltre il semplice tributo alla loro storia individuale.

Offre l’occasione per fare il punto su evoluzioni e/o involuzioni subite dal loro contesto di riferimento, dopo la fase che li ha visti protagonisti.

Eppure, le scorie tossiche delle ultime elezioni presidenziali americane hanno avvelenato i pozzi di questo processo di ricostruzione storica.

Sono bene riassunte in un duro tweet di Donald Trump che noncurante del lutto (come già in occasione dei funerali di John McCain) non ha lesinato feroci critiche alla memoria di Powell.

Inchiodandolo, per l’ennesima volta, alla sfortunata immagine che lo ritrae mentre mostra la famosa fiala contraffatta per accusare Saddam Hussein di produrre armi di distruzione di massa.

E facendogli un doppio sgarbo postumo: nell’additarlo tra i principali responsabili della controversa campagna americana in Iraq e nel riassumere una carriera pluridecennale in quel singolo episodio, diventato plastico di un epoca come la scarpa sbattuta sul tavolo da Nikita Khrushchev o il bacio della fratellanza tra Leonid Brezhnev e Erich Honecker.

Sul primo aspetto, i principali osservatori e storici dell’epoca sono concordi nel dire che Powell in realtà era contrario ad un intervento armato contro Saddam e che probabilmente era in buona fede (ergo, “male” informato) quando presentò le finte prove al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

In altre parole, la decisione della campagna di Iraq era già stata presa altrove, seguendo le forti pressioni esercitate su George W. Bush da Dick Cheney, a detta di molti il vice-presidente con i maggiori poteri reali nella storia degli Usa.

Per quanto riguarda invece il curriculum di Powell, non si deve formulare un giudizio solo sulla base della esperienza da Segretario di Stato, apice del suo ruolo politico ma anche all’origine della  decisione di ritirarsi dalla scena pubblica alla scadenza del suo mandato, nel 2005.

Molto più consistente è stata la sua carriera militare, intrapresa per intero, partendo dai livelli più bassi e scalando tutti i gradini, senza scorciatoie o avanzamenti per cooptazione di cui hanno beneficiato altri alti ufficiali di pari grado.

E’ stato un percorso così intenso e continuo da avere condizionato la formazione caratteriale dell’uomo, diventato osmotico con la figura e la mentalità del soldato, che resterà una costante anche del Powell politico.

Rispetto ad altri generali-a-4-stelle più a loro agio in abiti civili e portati alla politica come Wesley Clark o David Petraeus, Powell ha sempre dato l’impressione di seguire una disciplina militare anche quando ha rivestito il ruolo di capo della diplomazia statunitense.

Il senso della gerarchia e l’affidabilità lo hanno fatto apprezzare dal punto di vista umano ma ne hanno appiattito l’immagine a mero esecutore di ordini ricevuti, e per questo debole nell’azione politica.

E’ stato un giudizio nei suoi riguardi che molti dei suoi contemporanei hanno condiviso.

Come nel gennaio 2004 quando, recatosi in visita a Mosca per un bilaterale con Vladimir Putin, di lui il ministro degli affari esteri russo dell’epoca, Igor Ivanov, ebbe a dire che non era un policy maker, salvo però ammirarne la correttezza e il parlare chiaro tipico di una forma mentis militare.

Oggi, nel dare ampio spazio sui media alla sua scomparsa, Mosca non soltanto ne ricorda la figura ma sembra anche rimpiangere il periodo positivo nei rapporti con Washington di cui egli si fece portavoce.

Quando, dall’Afghanistan alla guerra al terrorismo, i punti di collaborazione russo-americani superavano quelli di dissidio, i due presidenti avevano instaurato un sincero rapporto personale e Mosca ancora sperava di accreditarsi come partner paritario dell’Occidentale.

Era il contrario dei rapporti tesi che sono andati cronicizzandosi negli ultimi tre lustri e che solo nella stessa settimana della morte di Powell sono stati confermati da due episodi, piuttosto emblematici degli attuali trend.

Quello più evidente, nonché grave per ricadute sull’immaginario e implicazioni nell’immediato, riguarda la decisione comunicata da Sergey Lavrov di sospendere da novembre le relazioni diplomatiche russe con la Nato, portando alla chiusura dei rispettivi uffici di collegamento a Mosca e Bruxelles.

Si tratta di una dura retaliation alla espulsione operata due settimane prima dalla Nato di ben otto funzionari russi accreditati, accusati di svolgere “sospette attività maligne russe” (ergo, spionaggio).

E’ un escalation che oggi non sorprende, ma che rende ancora più difficile immaginare che “solo” nel 2010 un contingente militare della Nato aveva sfilato sulla Piazza Rossa nella Parata della Vittoria sul Nazifascismo del 9 Maggio, principale ricorrenza laica russa.

Il secondo episodio, più marginale ma indicatore della profondità delle attuali divisioni, rimanda all’atteso incontro bilaterale del 12 ottobre a Mosca tra delegazioni capeggiate rispettivamente dal sottosegretario di Stato USA Victoria Nuland  e dal viceministro degli affari esteri Russo Sergey Rybakov.

Nonostante, per permetterle di partecipare all’incontro, il Cremlino abbia revocato le sanzioni introdotte contro la Nuland per il suo ruolo nella crisi ucraina conclusasi con la defenestrazione di Viktor Yanukovych, il bilaterale si è concluso con un nulla di fatto.

Rybakov ha candidamente ammesso che si è trattato di un dialogo tra sordi, fermi sulle proprie posizioni.

E’ un esito ascrivibile in gran parte alla dura fase che passano le relazioni russo-americane.

Vi fosse stato un interlocutore come Powell forse il risultato non sarebbe cambiato.

Di certo, avrebbe però aiutato a rasserenare gli animi.

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