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Non solo Bolloré. I miliardari francesi che puntano la politica e le telco europee

La decisione di Patrick Drahi di diventare primo azionista di Bt mette in allarme il governo britannico, così come la coppia Bolloré-Zemmour spaventa il presidente Macron. L’influenza dei miliardari d’Oltralpe è sempre più ampia, e si allarga all’estero

Se la decisione del magnate franco-israeliano, Patrick Drahi, di aumentare la sua quota in British Telecom Group non è stata accolta dalla Borsa di Londra con entusiasmo, ancor meno felice è stato il governo britannico. L’imprenditore, proprietario di Altice, ha dichiarato di aver aumentato la sua quota all’interno del gruppo dal 12,1%, acquistato a giugno, all’attuale 18% diventando di fatto il maggior azionista del gruppo. L’annuncio è arrivato alla fine del blocco su ulteriori acquisti, che la legge britannica fissa a sei mesi. Eppure, da Downing Street promettono che ci vogliono prima veder chiaro, siccome “il governo si è impegnato ad armonizzare il Paese attraverso l’infrastruttura digitale, non esiterà ad agire se necessario per proteggere la nostra infrastruttura di telecomunicazioni”.

Nei primi di gennaio entrerà infatti in vigore il National Security & Investment Act, in base a cui l’Esecutivo avrà il potere di valutare tutte le acquisizioni dall’esterno in 17 settori che sono stati considerati strategici. Tra questi rientrano anche le telecomunicazioni. Qualora l’offerta lasciasse dubbiosi riguardo la sicurezza nazionale, il governo si riserverà la possibilità di bloccare l’acquisizione. Per di più, sono in vigore delle norme transitorie con effetto retroattivo a tutte le operazioni concluse dopo il 12 novembre. Così, da Londra non hanno esitato a intervenire.

Drahi, da parte sua, ha dichiarato come non abbia (al momento) alcuna intenzione di avanzare un’offerta alla società. Data la sua esposizione, per la legislazione britannica questo significa che l’acquisizione completa è scongiurata per ulteriori sei mesi. Una legge che può facilmente essere aggirata da un accordo interno alla società o dalla comparsa di una terza parte. L’imprenditore ha detto che potrebbe cambiare, certo, ma per ora “continuiamo a tenerli in grande considerazione e a sostenere pienamente la loro strategia, principalmente per svolgere un ruolo fondamentale nel fornire l’espansione dell’accesso alla rete a banda larga in fibra completa”.

Il riferimento è chiaro e la mente corre subito al progetto da 20 miliardi di Bt per realizzare una rete nazionale in fibra ottica per arrivare a 25 milioni di famiglie entro cinque anni. Anche con le rassicurazioni dello stesso Drahi e con la nuova strategia del gruppo per proteggersi ulteriormente da eventuali Opa (a ottobre ha messo sotto contratto la società di consulenza Robey Warshaw e ha introdotto nuove regole sul cambiamento del controllo) il titolo vede comunque le proprie azioni scendere del 7,5%.

Il magnate francese delle telecomunicazioni aveva investito in Bt 2,2 miliardi di sterline (circa 2,6 miliardi di euro) appena sei mesi fa. L’ulteriore 6% gli costerà un altro miliardo. Qualcuno potrebbe obiettare che gli restano parecchie munizioni, visto che secondo Forbes il suo patrimonio si aggira sui 12,3 miliardi di euro. E, soprattutto, in un settore strategico come quello delle telecomunicazioni. A prescindere da come andrà a finire, la tendenza dei miliardari delle telco francesi sembra quella di muoversi come esperti di finanza sfruttando il proprio potere in Europa e non solo.

Dire Drahi vuol dire Altice, una multinazionale di telecomunicazioni fondata nei Paesi Bassi e attiva in Belgio, Lussemburgo, Mauricius, Portogallo, Repubblica Domenicana, Stati Uniti, Svizzera, oltre alle scontate Francia e Israele per le sue origini. Drahi è anche primo azionista di Altice France, Altice Usa (nata dalla fusione di Suddenlink e Cablevision) e Domenicana, di Virgin Mobile, di Portugal Telecom, dell’israeliana Hot e, da ora, della British Telecom. Tutte ragioni che hanno portato il governo di Boris Johnson a frenare la sua foga.

Inoltre, la carriera di Drahi con i media si divide tra Israele e Francia, ma spesso le due strade si sono incrociate. Il canale televisivo di Tel Aviv, i24News, è di sua proprietà allo stesso modo dei francesi L’Express, BFM TV (tra i più visti in Francia), Radio Monte-Carlo e, su tutti, il quotidiano fondato da Jean-Paul Sartre, Libération, che salvò dalla bancarotta nel 2013 con un’operazione da 18 milioni di euro. E qui c’è una storia curiosa che spiega come si stia muovendo Drahi a livello internazionale.

Per riportare Libé (come lo chiamano i suoi lettori) ai fasti di una volta, l’imprenditore ha deciso nel settembre del 2020 di affidarne la guida a Dov Alfon. Sessantenne, israeliano, una vita nel giornalismo di cui gran parte (trent’anni) trascorsa nella redazione di Hareetz. A lui è stato dato il compito di rinnovare il quotidiano, per renderlo nuovamente appetibile. Per riuscirci, dovrà inevitabilmente affrontare una trasformazione tecnologica e digitale per aumentare ancor di più i lettori online – ad aprile, gli abbonati digitali erano cresciuti di oltre il 150%, senza contare quelli affezionati al cartaceo.

Niente di strano dunque, se non fosse per il passato militare di Alfon. A diciotto anni, dopo esser arrivato in Israele dalla Francia per insulti antisemiti rivolti alla famiglia, viene reclutato per il servizio militare in un’unità segreta, di cui non si conosce nulla. Dopo quell’esperienza, ha iniziato a lavorare in una base di cyberspionaggio, l’Unità 8200, collegata direttamente alla rete militare Arpanet. Lì rimase per diverso tempo e fu costretto ad una scelta solo quando l’incarico da giornalista mal si sposava con quello della sicurezza.

Pertanto, al momento della sua nomina a Libération, è apparso quantomeno insolito che a dirigere un giornale storicamente di sinistra – “libertario di sinistra”, come lo ha definito Alfon – potesse essere un personaggio che ha collaborato in modo attivo con la sicurezza dello Stato israeliano. “Per scrivere i miei rapporti confidenziali da inviare a ministri o altri funzionari del governo dovevo fare una selezione in un mare di informazioni, dare un taglio giusto, scrivere in modo efficace. Cose richieste anche ai giornalisti”, aveva affermato giustificando il doppio lavoro. Come direttore ha mantenuto la linea politica schieratissima e incrementato le vendite.

Tuttavia, l’operazione Alfon nel 2020, quella di oggi su Bt e più in generale l’intera carriera la dicono lunga sul soft e hard power dei magnati francesi delle telecomunicazioni, che sfruttano la propria influenza tra i confini nazionali e oltre. È il caso di Xavier Niel e della sua Iliad, fondata nel 1990 a Parigi ma che nel 2016 è sbarcata anche in Italia dopo la fusione di Wind e 3 Italia e che ad aprile è diventata prima azionista del gruppo Unieuro.

E di Vincent Bolloré, azionista di maggioranza di Vivendi che possiede, tra le tante, il 28,8% di Mediaset e il 23,7% di Telecom Italia. La sua storia nelle telecomunicazioni si intreccia con la politica, dove aveva trovato in Nicolas Sarkozy un amico su cui contare. Sotto la sua amministrazione, Bolloré era riuscito a entrare nelle grazie di alcuni governi africani. Pressioni politiche e diplomatiche, a volte anche militari, sono poi finite nel radar della giustizia francese. A febbraio ha patteggiato l’accusa di corruzione del governo del Togo in cambio di concessioni e appalti nel porto di Lomé per la sua Bolloré Africa Logistics. L’autoaccusa, però, non gli ha evitato il processo.

Una volta terminata l’era Sarkozy, per Bolloré le cose non sono andate così bene con i presidenti dell’altra sponda politica: prima Francois Hollande – mai amato, ancor meno dopo che l’ex presidente della Repubblica lo aveva definito “pirata cattointegralista” – e poi Emmanuel Macron, il suo nemico numero uno. L’attuale presidente ha espressamente invitato Bolloré a non acquistare più tv e giornali, visto che “sta comprando tutto”. Il consiglio non è stato neanche preso in considerazione e da lì i rapporti, già non buoni, hanno finito per incancrenirsi. Dietro la decisione di andare a processo in seguito al suo patteggiamento, ad esempio, Bolloré è convinto che ci sia la mano di Macron. Le diatribe tra i due non finiscono qui, ma questi due esempi spiegano bene il perché ad oggi su Bolloré si sia scatenata un’altra polemica: quella relativa al candidato di estrema destra Eric Zemmour.

La firma di Le Figaro che aspira all’Eliseo rappresenta una novità nella corsa presidenziale. Le luci sono tutti puntati su di lui e per qualcuno quelle che gli riserva Cnews, di proprietà di Bolloré, nel suo programma Face à l’Info sono eccessive. Dopo che perfino Marine Le Pen ha iniziato a lamentarsi dell’ampio spazio che veniva concesso a quello che è a tutti gli effetti il suo rivale a destra, anche il Consiglio superiore dell’audiovisivo (CSA) aveva chiesto che Zemmour fosse cronometrato. All’epoca Zemmour non era ancora candidato. Adesso il discorso vale ancor di più.

“Trump è passato dai reality in tv alla Casa Bianca. Ma era il candidato del partito repubblicano, mentre Zemmour è il candidato di un gruppo audiovisivo. Abbiamo rimproverato a Silvio Berlusconi di mettere le sue tv al servizio della carriera politica, ma adesso c’è un gruppo privato, quello di Bolloré, che ha scelto in Zemmour il portavoce dei suoi interessi”. Le parole dell’ex presidente Hollande rilasciate al Corriere della Sera a fine ottobre sono accuse pesanti ma che riflettono il pensiero che aleggia attorno al candidato francese.

Qualora dovesse vincere, per Hollande si tratterebbe di “un’impresa, perché è tale in tutti i sensi del termine. Zemmour è un’impresa con i risultati finanziari sostenuta da un gruppo mediatico (quello di Vincent Bolloré, ndr). Zemmour va molto più lontano di Marine Le Pen sull’Islam e la parità uomo-donna. Quel che trovo molto grave è che nei confronti di Zemmour non viene tentato alcuno sbarramento democratico, quando invece una diga era stata eletta dalla famiglia Le Pen”.

Insomma, quello tra Bolloré e Zemmour è un duetto che funziona. Il primo garantisce visibilità al secondo in vista delle presidenziali del 2022, mentre il secondo garantisce introiti al primo grazie al seguito che sta ricevendo. L’effetto sorpresa che lo aveva portato addirittura avanti nei sondaggi rispetto a una candidata storica come Le Pen sta lentamente svanendo. O meglio, si sta assottigliando, ma non per questo si può parlare di fuoco di paglia. Specie se alle spalle possiede una struttura come quella di Bolloré. Allo stesso modo, la coppia Drahi-Alfon sembrerebbe portare ai risultati previsti. Gli stessi che il magnate si augura di ottenere in Bt una volta divenuto il capo.

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