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Le foibe e il ricordo. Problemi di coscienza (nazionale) secondo Menia

L’ex parlamentare di An che fece approvare la legge sulla Giornata del Ricordo: “In Italia sulle foibe si allunga il velo di una damnatio memoriae. Storicamente, il Partito Comunista ha grosse colpe”

E’ una ferita dalla quale sgorgano ancora ricordi dolorosi. Ogni 10 febbraio è un tuffo in un passato che per troppi anni si è tentato di oscurare all’ombra della grande storia che scorreva. Roberto Menia, ex parlamentare di An (prima) e del Pdl poi, anche in virtù della sua esperienza familiare, si è sempre sentito cucito addosso il dovere di squarciare il velo dell’indifferenza sui crimini nelle foibe. Perché Tito “operò una vera e propria sostituzione: crimini sui quali per troppo tempo si è addensato un fitto muro di silenzio o, peggio, di negazionismo”. Nel 2020 ha pubblicato ‘10 febbraio. Dalle Foibe all’esodo(I libri del Borghese). Ma, soprattutto, è stato il promotore della legge che ha istituto il Giorno del Ricordo. Una data che ancora, nonostante tutto, crea divisioni e polemiche.

Qual è il motivo di questa spaccatura fra chi nega quanto accadde sotto il regime di Tito e chi invece ne pretende il ricordo?

Quello del 10 febbraio è un appuntamento divisivo perché c’è ancora chi è obnubilato da quanto perpetrato sotto il regime comunista di Tito. In Italia sulle Foibe si allunga il velo di una damnatio memoriae. Sia sui martiri infoibati, sia sull’esodo che si verificò a seguito del terrore.

A chi è imputabile questa colpa?

La strage delle foibe avvenne a guerra finita. E l’esodo addirittura si verificò nei quindici anni successivi. Il contesto era quello di un’Europa divisa ancora nei due blocchi. Quello sovietico, vicino a Tito, e quello atlantico. Dunque gli attori internazionali hanno in parte beatificato il boia degli italiani in quel frangente. L’altra componente che in un certo senso è complementare è quella della coscienza. La coscienza sporca di un partito comunista – quello italiano – che, cresciuto nel mito della Resistenza, fece sempre fatica ad ammettere i crimini di Tito.

Oggi a che punto siamo?

C’è stata sicuramente una presa di coscienza su quanto successo ai nostri compatrioti giuliano-dalmati, rispetto anche solo a vent’anni fa. Tant’è che chi, attualmente, continua a negare le oscenità di Tito, difetta più che altro dell’umana pietas.

Nel libro lei racconta tante piccole storie che poi compongono il mosaico della grande Storia. Qual è il messaggio che vorrebbe veicolare?

Recuperare la nostra storia. E, dal recupero della lingua, delle tradizioni e finanche delle ricette culinarie, trarre nuova linfa per seminare. Per creare una coscienza collettiva al di là degli steccati ideologici. Il paradossi è che le giovani generazioni e gli anziani sono coscienti di quello che accadde, le persone di età media hanno ancora una scarsa consapevolezza. Proprio perché si sono formati in un periodo di sostanziale oscurantismo sulle foibe. La mia, dunque, è una missione nazionale.

A proposito di steccati ideologici, non pensa che da parte della destra ci sia stata, negli anni, una forma di ‘appropriazione’ del ricordo delle vittime istriane?

La mia storia politica parla chiaro. D’altra parte sono entrato nel Movimento Sociale quando tutti (compresa la Dc) sottoscriveva il trattato di Osimo. Sicuramente quella sul Ricordo è sempre stata una battaglia della destra. Ma d’altra parte solo da destra si è cercato di tributare il giusto riconoscimento ai nostri compatrioti uccisi dal regime comunista. Poi, in Italia, da sempre si scontrano Guelfi e Ghibellini. La vera sfida, specie in un momento in cui i testimoni si stanno via via spegnendo, sarebbe quella di una memoria collettiva. Una storia nazionale.

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