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L’Europa dopo Versailles e il doppio salto su energia e difesa

Serviranno ingenti risorse per finanziare gli interventi sia nel campo dell’energia, al fine di non gravare eccessivamente su famiglie ed imprese, sia le maggiori spese per armamenti, senza parlare della necessità di sostenere il ciclo economico e scongiurare il pericolo della stagflazione. Queste risorse non possono certo essere trovate nei bilanci dei singoli Stati

A giudicare non tanto dai risultati, che si vedranno, quanto dall’atmosfera dell’ultimo Consiglio europeo sembra proprio che Jean Monnet avesse ragione, quando ripeteva che l’Europa “sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”. E che crisi, poi! Una ferocia inaudita. Popolazioni inermi sterminate dalla volontà di potenza di un Paese, la Russia, le cui élite hanno deciso di rinnegare il proprio passato. Ciò che, nel bene e nel male, le vecchie generazioni avevano rappresentato, nel nome dell’emancipazione umana, per milioni e milioni di persone. Che non avevano esitato ad immolarsi, molte volte a tradire il proprio paese, per contribuire all’affermazione di un’idea che si riteneva essere la più grande delle altre. Questa rottura peserà, sul destino della nomenclatura russa. Difficile prevedere come e quando, ma alla fine pagheranno.

Che i rumori di una guerra, a due passi dal cuore dell’Europa, impattasse sui lavori del Consiglio europeo era inevitabile. Meno scontato il fatto di una risposta unitaria, capace, al tempo stesso, di respingere le provocazioni di Putin, senza per altro cedere all’avventurismo militare. Nella consapevolezza diffusa, se non generale, dei possibili pericoli. Una bestia ferita, e Putin è ferito, è capace di qualsiasi colpo di testa. Meglio allora non fornire occasioni. Fermezza e responsabilità: è stato questo il binomio che ha orientato tutti i lavori del Consiglio. Tanto che, alla fine, Ursula von der Leyen ha potuto annunciare con grande serenità un quarto pacchetto di sanzioni: stop alle esportazioni dei beni di lusso, sospensione della Russia dal Fmi e dalla Banca mondiale, revoca delle condizioni speciali – quella della “nazione più favorita” – riconosciute dal Wto (World trade organization).

Come sottolineato da quasi tutta la stampa, l’effetto sarà l’ulteriore isolamento di Putin. Costretto a mendicare accoglienza al suo ingombrante vicino. Quella Cina che ha una potenza economica più di sei volte tanto (18,85% del Pil mondiale, contro il 3,02 di Mosca, secondo il Fmi) ed una popolazione quasi 10 volte superiore (1,42 miliardi di persone contro 146 milioni). Non proprio un buon affare per Putin. Quei rapporti non erano stati buoni quando entrambi i Paesi si consideravano “fratelli”, nel mondo comunista, non saranno migliori oggi. Considerato che le élite cinesi non fanno mistero della loro vocazione egemonica nel nome del “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Dottrina direttamente inserita in Costituzione. E poi non è mai un buon affare, in politica estera, legarsi mani e piedi ad un proprio confinante soverchiante.

Ma più che riflettere sull’isolamento di Mosca, sarebbe meglio cominciare a ragionare sulla fine di un lungo ciclo. Quella fase che si era aperta nel lontano 1980 all’insegna di una visione un po’ naif della globalizzazione. Secondo quei precetti, il mercato era tutto. Vendere, comprare, investire, in qualsiasi posto del mondo che offrisse il migliore rendimento. Ed ecco allora mettersi nelle mani dei russi per le forniture di gas e per il petrolio, perché quello proveniente dal Medio Oriente, ad esempio, costava qualche cent in più. Quante polemiche in passato sulle forniture del gas algerino, i cui contratti a lungo termine apparivano eccessivamente onerosi.

Oggi si torna con i piedi per terra, tanto più che la vecchia egemonia del “capitale finanziario” dal 2007 in poi ha prodotto più di un disastro ed il meticciato degli scambi la più devastante epidemia degli ultimi cento anni. Quel virus ottenuto, non si sa ancora come, in un lontano laboratorio della città di Wuhan. E poi volato nei quattro continenti. Quando Joe Biden riesuma la parola “mondo libero”, mettendola in contrapposizione al blocco orientale “nazional comunista”, l’assoluto presunto predominio del mercato deve cedere il passo a ben altre strategie. Ed è stato forse questo l’elemento centrale di quest’ultimo Consiglio europeo che più ha colpito. Al punto da spingere Mario Draghi, l’uomo dell’antiretorica, a dire: “questo Consiglio europeo è stato veramente un successo. Raramente ho visto l’Unione europea così compatta”.

Unico dissenso, per altro contenuto, quello dell’Olanda. Il solito Mark Rutte, secondo gran parte della stampa internazionale. Le cui posizioni, tuttavia, in questo caso non fanno che confermare la precedente diagnosi. Con la nascita dell’euro il surplus delle partite correnti del Paesi dei tulipani è raddoppiato: passando da una media del 3,2 per cento (1980-2000) al 7,3 (2001-2020). Ben oltre il limite di tolleranza previsto dalle regole europee dell’Alert mechanism (pari al 6 per cento), ma che per l’Olanda è stato tollerato, proprio in virtù di quelle regole ecumeniche, che erano il drive della globalizzazione.

Il Consiglio europeo sembra pertanto aver avviato un ripensamento generale che fa capolino in diversi punti. Si è innanzitutto parlato di economia reale, lasciando sullo sfondo (giustamente) i problemi di finanza pubblica. Ed ecco allora i quattro pilastri di una nuova politica energetica: diversificazione delle fonti (un pallino della politica degli anni ’70) e sostituzione dei fossili con le energie rinnovabili; tetto all’aumento dei prezzi (forma massima di dirigismo contro la sregolatezza del mercato); segmentazione dei mercati per evitare ingiustificate omologazioni (energie rinnovabili – fossili); tassazione degli extraprofitti delle società elettriche. Altra misura incompatibile con la religione del mercato.

Tema particolarmente caldo, quello della difesa. L’Ue spende tre volte tanto la Russia, ma i risultati non si vedano. Al punto che Putin può fare il gradasso, minacciando ritorsioni militari. È necessario pertanto un maggior coordinamento, che non è un fatto tecnico, ma politico. Sul terreno più sensibile per ogni Stato moderno, si può fare di più solo se l’Europa cresce come coscienza collettiva. Altrimenti saranno le gelosie a farla da padrone, come appunto si è verificato in questi anni, indebolendo la posizione complessiva dell’Ue. Oggi sfidata da una potenza regionale decisamente più debole, per ricchezza posseduta (cinque volte tanto il Pil europeo rispetto a Mosca) e numero di abitanti: 446,1 milioni contro i 146, di cui si è detto in precedenza (tre a uno).

C’è da stare sereni? Qualche giornale italiano filo-putiano ha iniziato una campagna stampa catastrofistica. I guerrafondai – questo il sobrio titolo – porteranno l’Italia al disastro. Falsità. L’Italia, come l’Europa, continua a crescere. Ovviamente lo fa meno, data la guerra con i suoi riflessi inflazionistici, che hanno accentuato un male più antico. Ma lo 0,7 per cento di revisione a ribasso del Pil è niente rispetto al 7-8 per cento di caduta del Pil russo. Confronto ininfluente, la possibile risposta, ma sarebbe un doppio errore. Con la Russia, l’Europa è già in guerra. Per fortuna non si spara. Ma tutto ciò potrebbe accadere se Putin, con le sue bellicose intenzioni, non fosse messo all’angolo.

Ed ecco allora le domande rimaste sospese nell’aria. Gli interventi sia nel campo dell’energia, al fine di non gravare eccessivamente su famiglie ed imprese, sia le maggiori spese per armamenti per far fronte alle insidie del nuovo quadro geopolitico, senza parlare della necessità di sostenere il ciclo economico, scongiurando il pericolo della stagflation, richiedono ingenti risorse. Che non possono certo essere trovate nei bilanci dei singoli Stati. Occorrerà quindi riflettere sulla nuova fase che si intravede all’orizzonte, con un’unica certezza come ha ricordato Mario Draghi: voltarsi indietro e riproporre le vecchie regole del Patto di stabilità sarà impossibile. Pena: mancare tutti gli obiettivi, e ricacciare nuovamente la testa sotto la sabbia.

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