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Il ritorno dei rifugiati in Europa. Storia e problemi (soprattutto italiani)

Il nostro sistema nazionale d’asilo ha mantenuto alcune fragilità che rischiano di rendere molto problematica l’accoglienza dei rifugiati ucraini. Mancano una governance nazionale e le giuste politiche d’integrazione. La macchina si ferma alla “prima accoglienza”. Il punto di Nadan Petrovic, Università La Sapienza di Roma

Le guerre e gli esodi dei rifugiati che inevitabilmente conseguono ci trovano sempre impreparati, a maggior ragione se questi avvengono in un paese europeo. Eppure, il sistema internazionale di protezione di rifugiati nasce proprio sul suolo europeo per curare una delle principali conseguenze della Prima guerra mondale, vale a dire il fenomeno dei rifugiati provenienti in primo luogo proprio dalle zone dell’attuale Ucraina (principalmente dalla c.d. Galizia). Infatti, mentre sul fronte occidentale le linee di combattimento rimasero a lungo pressoché invariate con, di conseguenza, un minor impatto sulle popolazioni civili, sul fronte orientale l’esodo di milioni dei rifugiati fu una delle dirette conseguenze delle attività belliche. Già nel 1915, il numero di rifugiati ammontava ad almeno 3,3 milioni di persone per arrivare nel 1917 ad oltre 6 milioni.

Tali eventi, amplificati dalle conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre, ma anche dagli accordi di pace successivi al conflitto che introdussero cambiamenti geopolitici di enormi proporzioni (i tre imperi europei erano crollati, erano nati quattordici nuovi Stati, si erano aggiunti undici mila chilometri di nuove frontiere esterne in Europa), portano nei primi anni Venti il continente europeo a sperimentare una crisi di rifugiati senza precedenti, tale da costringere singoli stati (europei) a dover chiedere aiuto agli organismi sovranazionali appositamente creati quali Alto Commissariato della Società delle nazioni per i rifugiati (chiamato peraltro inizialmente Alto Commissariato per i rifugiati russi).

Anche nel contesto e alla fine della Seconda guerra mondiale decine di milioni di rifugiati – i sopravvissuti allo Shoah, gli appartenenti alle minoranze etniche, i cittadini dell’Est europeo che scappavano dai paesi dietro la cortina da ferro – si riversarono nell’Europa occidentale in cerca di protezione. Come già accaduto nel primo dopoguerra, per fare fronte alla nuova crisi, i paesi europei dovettero ricorrere all’aiuto degli organismi sovranazionali, in un contesto che portò, peraltro, all’adozione della Convenzione di Ginevra sullo status di Rifugiato del 1951. La Convenzione prevedeva tuttavia la possibilità di essere ratificata da parte degli Stati membri mediante apposizione della c.d. “riserva geografica” ovvero riservandosi gli stessi Stati di riconoscere lo status di rifugiato “ai soli individui di provenienza europea”.

La dimensione europea del fenomeno cambiò radicalmente solo in seguito al processo di decolonizzazione che a partire dagli anni Cinquanta fece esplodere le gigantesche crisi dei rifugiati negli altri continenti. In queste nuove circostanze, il continente europeo si cullò nell’idea di aver archiviato per sempre il fenomeno di rifugiati.

Lo spartiacque in tal senso fu rappresentato soltanto dalla guerra in ex Jugoslavia, che oltre a riportare – dopo quarantacinque anni – un conflitto armato in Europa, produsse milioni di rifugiati. Non è un caso, infatti, che lo strumento giuridico con il quale l’Unione Europea si appresta ad accogliere rifugiati ucraini – la c.d. Direttiva sulla protezione “temporanea” del 2001 – sia stata elaborata e adottata a seguito della guerra in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo.

Un ultimo cenno alla peculiarità nostrana. Nell’immediato post Seconda guerra mondiale, l’Italia fu una delle realtà maggiormente esposte al fenomeno dei rifugiati. Forse proprio per questo il nostro Paese nel 1954 fece la scelta – del tutto peculiare per le democrazie occidentali – di ratificare la già menzionata Convenzione di Ginevra, apponendo la già menzionata “riserva geografica”. Di conseguenza nel periodo dalla ratifica della Convenzione nel 1954 a tutto il 1989 furono presentate in Italia solo 188.188 domande d’asilo, con picchi annuali soltanto in occasione dei vari tentativi di rivolta dei paesi sotto il dominio sovietico (la rivolta ungherese del 1956, la cosiddetta “primavera di Praga” o del colpo di Stato in Polonia a seguito delle manifestazioni del sindacato Solidarnosz).

Per il ritiro della “riserva geografica” si sarebbe dovuto, infatti, aspettare il mutamento dello scenario politico internazionale della fine degli anni Ottanta, caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino: nel contesto di un crescente flusso globale delle persone in fuga sia da persecuzioni individuali che da situazioni di violenza generalizzata portò ad una sensibile e pressoché costante crescita delle richieste d’asilo anche nel nostro Paese, iscrivendo gradualmente l’Italia tra i Paesi maggiormente esposti ai flussi per richieste d’asilo tra i paesi industrializzati.

Tuttavia, nonostante così repentino e radicale cambio dello scenario, il nostro sistema nazionale d’asilo ha mantenuto alcune fragilità – dovute proprio alla particolare evoluzione esposta sopra – che rischiano di rendere molto problematica l’accoglienza dei rifugiati ucraini. Le criticità che possono essere sintetizzate, da un lato, nell’estrema debolezza di governance nazionale del settore e, dall’altro, nella pressoché totale assenza di politiche d’integrazione (a favore di quelle generiche “di prima accoglienza”, che di norma non portano gli accolti a una vera inclusione).

Difatti, sebbene il dispositivo di accoglienza venisse notevolmente rafforzato a partire dagli anni Duemila, la sua impostazione generale continuava, e continua tutt’oggi, ad essere improntata sulla “prima accoglienza” anziché sulle politiche d’inclusione e di integrazione. Di conseguenza, molti rifugiati, anche dopo anni passati “in accoglienza”, nonostante l’esborso considerevole di denaro pubblico, finiscono spesso in situazioni di grave emarginazione sociale vivendo in stabili occupati e stazioni ferroviarie.

Inoltre, nel nostro Paese continuano a mancare sia le agenzie nazionali in grado di governare i complessi aspetti gestionali del fenomeno dell’asilo e dell’accoglienza (sul modello della tedesca BAMF), sia i dicasteri – ad eccezione di due brevi esperienze del c.d. Ministero dell’Integrazione – con un mandato specifico in relazione alle politiche d’integrazione.

Di conseguenza, considerate molte lodevoli iniziative spontanee d’accoglienza a favore dei rifugiati ucraini, organizzate nella maggior parte dei casi da associazioni e gruppi di sostegno informali, unitamente alle attese dimensioni dell’esodo ed al fatto che la permanenza dei rifugiati verosimilmente non sarà di breve durata, è opportuno predisporre sin da subito interventi che vadano ben oltre le semplici iniziative di ”prima accoglienza” e individuare a tal fine sistema di governance adeguato. In caso contrario, rischiamo di vedere letteralmente “travolto” il nostro, fin troppo fragile, sistema nazionale d’asilo ma anche di mettere a rischio la coesione sociale, in un momento peraltro gravido di incertezze per tutti.

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