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Letta-Meloni, entente cordiale (con vista maggioritaria)

Al Senato un convegno della Fondazione Farefuturo insieme ai leader di Pd e Fdi Enrico Letta e Giorgia Meloni. Tra avversari convergenze parallele, dalla condanna dell’invasione russa alla legge maggioritaria

I primi a scherzarci sopra sono loro. Giorgia Meloni ed Enrico Letta riconoscono “il momento di idillio”. Nella Sala capitolare del Senato, a Piazza della Minerva, i leader di Fdi e Pd parlano di guerra ma sembrano promettersi pace. L’occasione è la presentazione dell’ultimo rapporto della Fondazione Farefuturo presieduta da Adolfo Urso, senatore e presidente del Copasir. È lui l’officiante di un incontro sui generis tra i migliori nemici della politica italiana. “Siamo orgogliosi della nostra avversità”, dice Meloni entrando.

Nei sondaggi, da mesi ormai, è già uno scontro a due. Pd e Fdi si contendono il podio con un testa a testa che promette di durare fino alle politiche, l’anno prossimo. Il primo al governo, garante dell’era targata Mario Draghi. Il secondo solo all’opposizione. Anche se a tratti i margini sembrano sparire. Come sulla guerra russa in Ucraina, che ha ridisegnato le geometrie politiche.

Al Senato Letta e Meloni suonano uno spartito molto simile. Quasi gareggiano, a condannare l’“invasione folle e criminale” (copyright Letta) e a sostenere la “legittima difesa” armata degli ucraini (copyright Meloni). Convergenze parallele sulla cresta dell’Atlantico. Dall’inizio delle ostilità Pd e Fdi hanno scelto la linea della fermezza: niente sconti a Vladimir Putin. Guai a chiamarla svolta. Perché, rivendica Meloni un po’ infastidita dalla sintonia con il Nazareno che la stampa le attribuisce, sull’atlantismo “da settant’anni la destra italiana non ha ambiguità”, e in fondo “erano i comunisti italiani a tifare per i carri armati sovietici a Budapest”.

Scaramucce a parte la sintonia c’è eccome. Per esempio sulla divisiva questione delle forniture militari a Volodymyr Zelensky e alla resistenza ucraina. Se per Matteo Salvini “si parla troppo di armi”, Letta e Meloni sono di altro avviso. “In gioco non c’è solo la resistenza del popolo ucraino ma l’idea stessa di democrazia”, dice il primo. “Surreale che qualcuno chieda agli ucraini di arrendersi”, ribatte la seconda.

Democrazia, dittatura, libertà tornano a farsi spazio nel vocabolario della politica italiana. E per una volta tanto non si parla di Covid. In Italia più che altrove la guerra in Ucraina risveglia sentimenti opposti sulle stesse fondamenta del sistema democratico. In un sondaggio nel rapporto della Fondazione Farefuturo insieme all’International republican institute (Iri), influente think tank americano, si legge che il 41% degli italiani vorrebbe un “uomo forte”, che faccia a meno del Parlamento: un unicuum, a confronto degli altri Paesi europei.

La libertà, dice allora Letta, sarà “la grande questione del nostro secolo”. Meloni cita addirittura la figlia di Aldo Moro, Maria Fida, “c’è gente che per la libertà ha dato la vita”. Ma il solco in cui si muove è quello, scelto da tempo, del conservatorismo americano, e non a caso non manca di riservare un assist all’(ex?) alleato Donald Trump condannando la “censura” infitta dalle big tech a “un presidente democraticamente eletto”.

Il problema semmai è come declinarla, la libertà. Qui i duellanti al Senato rimarcano le distanze. Due anni di pandemia hanno visto su schiere opposte Pd e Fdi, tra rigorismi e occhiolini alla marea no-pass e no-vax. “Non abbiamo mai chiesto di fare di meno, ma di fare meglio”, è l’affondo della leader di Fdi, che dà giù al governo Draghi sulla gestione dell’emergenza sanitaria, dalla Dad alle altre restrizioni.

La sintesi però si ritrova presto, quando il discorso va sul vero nodo politico da qui a fine legislatura: la legge elettorale. Meloni, più che avvertire, ammonisce Letta. Serve subito una legge maggioritaria, che “garantisce alleanze chiare e programmi in cui sono i cittadini a scegliere la maggioranza”. Il segretario del Pd non si smarca, anzi. Punta il dito contro “vent’anni di liste bloccate” e parla di “cittadini che non si sentono rappresentati, perché al momento della scelta non hanno la minima capacità di influenza”. Difficile però che l’intesa sblocchi l’impasse: il partito del proporzionale è trasversale e conta sostenitori più o meno espliciti, da Giuseppe Conte a Salvini, e l’entente cordiale tra avversari al Senato potrebbe non bastare a rompere i ranghi.

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