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Ucraina, un libro di Civiltà Cattolica per immaginare il domani

Padre Pierre de Charentenay già nel 2014 scrisse per la rivista dei gesuiti un saggio dove si ripercorre la situazione russa-ucraina dal quale è possibile comprendere chiaramente tutti i nodi di fondo che oggi sono riemersi fino alla guerra

“Quando pubblicammo il volume numero 9 di questa medesima collana, dedicandolo alla Russia – era il luglio del 2019 – non im­maginavamo certo di poterci trovare oggi dentro al brutale conflit­to aperto dall’invasione dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, da parte delle truppe di Vladimir Putin. In quel momento ci chiedevamo dove si stesse collocando la Russia dentro il «cambiamento d’epoca» in corso e dopo la dram­matica uscita di scena dell’Unione Sovietica. Oggi è difficile adempiere a un servizio indispensabile del giornalismo, ossia «contestualizzare» un evento, quando si è di fronte a una nazione brutalmente aggredita da un’altra che la invade”. Eppure è proprio questo che va fatto: serve a “raccontare un processo, a ricostruire alcune tappe storiche utili a illuminare i fatti presenti e, forse, anche i passi di domani”.

Padre Antonio Spadaro apre così il nuovo monografico della sua rivista, La Civiltà Cattolica, dedicato a quanto sta dilaniando il cuore dell’Europa. Nessuno negherà che sia un problema enorme. Ma per riuscire a risolvere un problema occorre per prima cosa capirlo e La Civiltà Cattolica ci offre una monografia sull’Ucraina che è un contributo prezioso per chi voglia davvero capire quale problema si trovi a fronteggiare. Storia, economia, interessi, religioni, sistemi di potere, sono tutti aspetti di una questione che sta avvelenando l’Europa. Il volume si occupa anche della letteratura, i suoi grandi autori ci aiutano a capire di chi parliamo, in che mondo siamo.

L’insieme è ricchissimo, e ripercorre la storia, dal passato fino al presente. Impossibile parlare di tutto ciò che il volume contiene e visto che ogni matassa va presa da un bandolo, l’articolo di padre Pierre de Charentenay colpisce con l’indicazione che contiene già dalle sue prime righe: “Si pensava che in Europa le frontiere si fossero stabilizzate dopo la guerra dei Balcani negli anni Novanta, ma ecco che tutto sembra rimesso in discussione come nel XIX secolo. Non si può capire questa crisi, se si rimane al livello degli avveni­menti quotidiani. Bisogna prendere allora un po’ di distanza storica e politica per far chiarezza su questo pasticcio, che è un complesso accavallarsi di questioni economiche, politiche, culturali, sia interne sia esterne”. Difficile non capire che il piede è quello giusto,  ma il fatto rilevante è che queste parole lui le abbia scritte nel 2014. C’è molto altro nei testi sull’oggi, soprattutto di padre Giovanni Sale, nella presentazione storica e attualizzata di padre Antonio Spadaro, c’è economia come religione nelle sezioni di approfondimento su un incrocio che va capito. Ma questo testo presenta una visione, quasi fermasse la nostra attenzione su un anno decisivo, il 2014, dicendoci che lì ci sono molte delle chiavi per immaginare il domani. Eravamo lontani dal disastro odierno, ma la Civiltà Cattolica già ci portava nel cuore del 2022. Può apparire strano, ma vale la pena presentare questo volume stando qui, a questo testo, perché capire quel che allora abbiamo trascurato è decisivo anche per capire cosa si può fare oggi e riuscire così a immaginare un diverso domani.

Il testo ci racconta brevemente la storia di questo Paese, che torna a pesare. Paese diviso lunga una linea tracciata dal fiume Dniepr; è così dal 1667, quando si divise il territorio con il trattato di Andrusovo: “A est il territorio è stato dominato dai Russi, a ovest dalla Polonia, e così rimase fino alla seconda guerra mondiale. Tre secoli di storia non si cancellano per un desiderio d’Europa, tanto più che l’uso delle lingue ha confermato questa divisione. Nel XIX secolo si parlavano sei lingue a ovest del Dniepr, e una sola a est, il russo”.

Consapevole di questo il noto politologo delle presunte linee di faglia che spaccano il mondo tra diverse civiltà in scontro, Huntington scelse ovviamente l’Ucraina come linea di faglia tra civiltà occidentale e ortodossa. Guardando bene si potrebbe dire che poteva essere una cerniera, se ci fosse stata l’intenzione di non far strappare l’Europa. Ma riprendiamo il racconto.

Nel 1917 l’Ucraina divenne un luogo decisivo, avversata dagli zaristi come sempre, con significativa presenza bolscevica. E nel 1922 il Paese entrò nell’Urss. “Gli eventi peggiori si verificano nel 1929-33 e sono legati alla presenza sovietica: la carestia, che ha causato circa 4 milioni di vittime, è il frutto di una collettivizzazione forzata da parte di Mosca, quando l’Ucraina era solo una delle Repubbliche socialiste sovietiche. Il po­polo se ne ricorderà durante la seconda guerra mondiale. Questa guerra ha lasciato tracce di un’altra grande tragedia: 8 milioni di vittime. Ma le due parti del Paese non hanno vissuto la stessa guerra, perché i nazisti hanno pensato di potersi annet­tere l’ovest del Dniepr, con la popolazione che li accoglieva come liberatori: 150.000 soldati ucraini dell’ovest si sono arruolati nelle Waffen-SS. A est è guerra di sterminio, con la distruzione com­pleta di numerosi villaggi”.

La storia non è un’ideologia, e conoscere il passato, a volte terrificante, aiuta a capire anche il presente, slogan e rancori, all’ombra dei quali c’è anche lo sterminio dei kulaki, i contadini ucraini. Si arrivò così fino ai tempi di Nikita Kruscev. Poi? “Quaranta anni dopo arriva il momento dell’indipendenza: sto­ria recente, che risale al 1991. La fine della tutela di Mosca e nello stesso tempo la fine del regime socialista liberano tutte le forze in campo, senza più nessun controllo esterno. Possono essere fatti dei paralleli con lo smantellamento della Iugoslavia negli anni Novanta: a lungo il dominio di Tito e del regime comunista avevano cancellato le diffe­renze etniche e religiose del Paese. Qui si tratta di una opposizione più semplice tra le culture ucraina e russa sullo stesso territorio: opposizio­ne che era stata dimenticata finché l’Ucraina rimaneva solidamente nel grembo dell’Urss. Essa si cristallizzava sulle alleanze future del Paese, sia con la Russia che con l’Unione europea. L’esitazione del Paese tra questi due poli – russo ed europeo –, sancita da voti in cui la mag­gioranza era sempre molto esigua, ha potuto a lungo far credere alla possibilità di un equilibrio e di un riavvicinamento”.

Ma la storia è fatta anche da interessi e in Ucraina di interessi ce ne sono tanti, agricoli e industriali. Ciò nonostante la gente ha cominciato subito ad emigrare, la popolazione a diminuire. Nessuno immigrava in Ucraina, ma gli interessi erano già cospicui. Ciò che si vedeva già in quegli anni’90 era una voglia russa di mantenere questo territorio nel suo grembo, e dell’Europa di includerlo tra i suoi alleati. “La proposta fatta all’Ucraina – dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nel 2007 – di diventare membro della Nato poteva essere vissuta come una provocazione. Fortunatamente la Germania e la Francia si sono opposte, ma il danno ormai era fatto. Il malcontento ribolle nella popolazione a causa del crollo dell’at­tività economica negli anni Novanta, nel momento dell’apertura al sistema dell’economia di mercato. Il Pil diminuisce del 60% tra il 1991 e il 1999. La corruzione aumenta”. La corruzione è una variabile costante, non sorprende che un osservatore acuto la indichi anche in questa terra tornata d’attrito. “L’elezione del 21 novem­bre 2004, truccata, sembra, dal presidente Yanukovich e dal clan di Donetsk, servirà da scintilla alla Rivoluzione arancione, che porterà Viktor Yushchenko al potere con Yulia Timoshenko come Primo ministro. La rivoluzione è ampiamente sostenuta dagli americani e dagli europei, e questo non piace né ai russi di Mosca, né ai pro- russi dell’Est dell’Ucraina. Ma la pressione russa comincia a farsi sentire sul gas, il cui prezzo passa da 50 a 95 dollari per 1.000 m3”.

Siamo nel percorso non tutto lineare che ha portato a Piazza Maidan, le elezioni rifatte dopo che il filo-russo Yanukovich, vincitore, è stato delegittimato dal Parlamento. Dietro l’angolo c’è tanto, ma non si può tacere della corruzione, che riscaldava molto, soprattutto considerando il contesto economico e sociale descritto.

Alle nuove elezioni, sempre finite con una sottilissima differenza tra i due campi, mancano molti voti dall’est del Paese, costantemente vicino a Mosca. Vinse il filo europeo con il 56% dei voti espressi. L’autore racconta con accuratezza la successiva crisi in Crimea, abitata al 58% da russi, gli ucraini sono il 24%. L’intervento russo era già allora chiaro all’autore, che nel 2014 scriveva: “Il porto di Sebastopoli è un motivo evidente di questa azione lampo. La flotta russa deve essere salvaguardata dalle velleità di Kiev e da un riavvicinamento all’Europa. Il Trattato del 1997 della Russia con l’Ucraina è valido fino al 2042: un tempo molto lungo e incer­to per una flotta russa così preziosa alla mercé di un Governo che avrebbe voglia di orientarsi rapidamente verso l’Europa. Bisogna garantire il suo futuro, stabilizzando la qualità dell’amicizia dell’oc­cupante di questo territorio. Inoltre la Crimea diventa così una base di riconquista per una eventuale controrivoluzione ucraina. È anche oggetto di contrattazione e di ricatto a favore dei russi. Preoccupa il precedente della Georgia: in effetti, la procedura usata per l’annes­sione della Crimea può ripetersi?”. Ciò di cui si parla si vedeva già allora.

Il racconto di padre Pierre de Charentenay prosegue raccontando la lotta nel Donbas. Ma qui dobbiamo correre, i fatti sono conosciuti ormai, conta il seguito dell’articolo: “L’Ucraina non è né russa né europea, ma un po’ tutte e due. I russi sono il 18% della popolazione, e tutti gli ucraini parlano russo, anche nella capitale Kiev. Putin non ha tanto una visione imperialista delle sue relazioni con gli ex­ Paesi satelliti quanto uno sguardo op­portunista sulle possibilità di recuperare ciò che ha perduto: perché non ricostituire sotto altra forma l’ex-Urss? Egli ha così cercato di russificare il Paese con Yanukovich, senza successo, perché l’Ucraina ha resistito. Ma la Crimea era un obiettivo possibile e interessante senza andare incontro a troppe conseguenze negative”. Putin, ci ricorda l’autore, voleva anche l’unione doganale, estesa a Bielorussia e Kazakistan. Kiev ha detto no. Vien da chiedersi: gli è andato tutto male? “Ma, con l’annessione della Crimea, ha ridato fiato allo spirito nazionalista russo e ritrovato una popolarità che era pericolosamente calata negli ultimi mesi: l’economia russa non gode di buona salute, e la corruzione generalizzata irrita profondamente la popolazione”. Torna dunque il tema della corruzione, la variabile che abbiamo definito costantemente presente in questi casi.

E l’Europa? “Ricorre alla politica del basto­ne e della carota dell’integrazione con Kiev, ma senza fornire gli aiuti necessari. L’est del Paese resiste a questi inviti. Nel frattempo i membri dell’Unione europea discutono tra di loro senza fine sulla possibilità di sanzioni contro la Russia, ma alcuni Governi temono una dinamica perdente contro perdente, e sanzioni che rischiano di aprire una guerra sul gas russo, di cui alcuni Paesi europei non possono fare a meno”. Accanto alla corruzione entravano evidenti gli interessi. La Germania temeva una destabilizzazione dell’est europeo al quale è molto vicina, e la Merkel, che parla russo, interloquiva con Putin direttamente, avversando troppe sanzioni.

“La Fran­cia, da parte sua, parla alto e forte contro la Russia, ma poi non fa granché, perché ha molti interessi economici e finanziari in ballo con essa”. Chi spingeva già allora era la Polonia, confinante con l’Ucraina: perseguiva già allora più sanzioni e ingresso rapido di Kiev. L’Europa era in chiara difficoltà e giustamente l’autore evidenziava già otto anni fa che il dato non era casuale. Nello specifico per l’autore Putin non voleva l’Europa alle sue porte, mentre la maggioranza degli ucraini voleva uscire dalla tutela russa. Ecco emergere una riflessione importantissima: “Donetsk non è separatista per principio. I suoi abitanti vogliono l’unità del Paese, ma temono che Kiev non li ascolti e decida del loro destino sopra le loro teste. Vogliono una Ucraina federale. Una volta integrati tutti questi punti, resta da costruire un Paese vitale e pacifico”. E qui, ovviamente, assume rilievo l’economia. L’Ucraina in quegli anni era sull’orlo della bancarotta, Mosca le aveva prestato due miliardi di dollari, non poteva perdere tutto né avere una guerra economica. “Kiev dipende energeticamente dalla Russia da molti anni. Se l’industria nazionale Naftogaz annuncia che possiede riserve di dodici miliar­di m3 di gas, ha bisogno di un approvvigionamento regolare”. Nel 2014 Gazprom chiudeva i rubinetti per ottenere i suoi soldi. Kiev lamentava che il prezzo del gas prima della rivoluzione era a 95 dollari, ma allora a 268. Era la guerra del gas, già chiara allora? L’Europa la temeva, perché 15% del gas che consuma già passava dall’Ucraina.

“Dopo molte vicissitudini, dopo la grande incertezza dell’inizio del 2014, i vari partner del conflitto ucraino, interni o esterni – Ucraina, Russia, Stati Uniti, Unione europea – si sono incontrati per una Con­ferenza a Ginevra. Le conclusioni raggiunte il 17 aprile chiedevano la cessazione degli scontri e l’apertura di un dialogo per riconoscere gli interessi regionali. L’est dell’Ucraina ha accolto questi accordi nell’in­differenza e nel disprezzo. Questi accordi non hanno fornito nessuna agenda particolare per il futuro, come la stesura di una nuova Costituzione e gli orientamenti che essa potrebbe prendere. Tra l’altro hanno dimenticato la Crimea. Ma si poteva fare diversamente, quando la semplice menzione del ri­torno all’Ucraina integrale blocca ogni possibile dibattito? Nemmeno la Russia viene menzionata nei disordini dell’est dell’Ucraina. Questi accordi di Ginevra non rimarranno nella storia come una svolta definitiva del conflitto, ma rappresentano una tappa, proba­bilmente necessaria, del ritorno al dialogo tra le parti antagoniste. Questa Conferenza ha comunque rafforzato la credibilità del pro­getto di elezione presidenziale, che si è potuta svolgere il 25 maggio, nonostante tutti i dubbi che erano stati espressi, mentre la violenza  nell’est del Paese non si fermava. L’elezione di Petro Poroshenko ha due facce: la prima è positiva, perché stabilizza le istituzioni ucraine e restituisce a Kiev unità e coerenza. Ma è anche un rischio, perché crea paura nel Donbas. Tutto dipenderà dalla capacità di Poroshenko di animare il dibattito dopo aver ascoltato i vari punti di vista”.

Ecco la discussione decisiva: Poroshenko vede una decentralizzazione, Putin chiede il federalismo. “Al di là di un apriori sfavorevole per tale soluzione, visto che è pro­posta da Mosca, è necessario riflettervi seriamente: federazione non ha mai voluto dire indipendenza di una regione rispetto alle altre”.

Arrivato a questo punto l’autore ci illuminava con la sua lettura di una questione ancora oggi decisiva e poco chiara, quella sulle Chiese. Questione decisiva e frammentata. Mosca pretendeva come pretende che l’Ucraina rimanesse nel patriarcato di Mosca, la maggioranza però spingeva per l’indipendenza, poi ottenuta: accanto a loro ci sono i cattolici. “Il fatto che Petro Poroshenko appartenga alla Chiesa ortodossa che dipende dal Patriarcato di Mosca è una realtà abbastanza positi­va, perché sarà più facilmente accettato dal Patriarcato di Mosca, e quindi sarà visto positivamente dal Cremlino nel lavoro di ricostru­zione di un’unità nazionale. Il peso politico delle religioni è tuttavia debole a causa dell’estrema divisione della scena religiosa ucraina”.

L’incontro tra Putin e Poroshenko sembrava aprire nuove speranze, i due si parlavano al telefono. La storia volgeva al bello? Padre Pierre de Charentenay, in quel cruciale 2014, osservava: “Tanto però rimane ancora da fare per il futuro: soprattutto si deve redigere una nuova Costituzione che possa essere accettata da tutti. Il Paese deve in particolare rinnovare le sue pratiche politiche, elimi­nare la corruzione e il crimine organizzato che incancreniscono la giustizia, la polizia e la politica. L’oligarchia deve essere sottoposta al controllo della legge. È un lavoro immenso, ma assolutamente necessario. Rimane anche il problema dell’epurazione: bisogna vietare qualsiasi posto ufficiale a chi si è compromesso con i precedenti regi­mi russofilo o comunista? Fino a che punto processare i funzionari del passato? La cosa più difficile sarà forse creare le condizioni di un vero dibattito democratico tra attori che non ne hanno l’abitudine, o che si sono espressi per strada nelle manifestazioni. Che cosa fare de­ gli ex-militanti di Piazza Maïdan? Come integrare i pro–russi nel dibattito nazionale? Il Parlamento è pronto a svolgere il suo ruolo con responsabilità? Gli oligarchi rispetteranno le regole di una vera costruzione democratica? Si tratta soprattutto di ricostruire il rispetto reciproco tra Paesi che si sono umiliati a vicenda, così come tra attori ucraini che si sono fatti la guerra. I metodi usati sono stati discutibili, anche se li si è rivestiti di legalità. Soltanto il rispetto reciproco potrà ga­rantire la pace”.

Altro è successo dopo quel 2014. Altri accordi, altre non attuazioni, altre provocazioni, altre incomprensioni. Ma i nodi di fondo qui emergono chiaramente.

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