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Genesi dell’effetto Meloni e i neo desaparecidos della politica

Appena agli inizi l’effetto Meloni scuote dalle fondamenta la politica e provoca il primo passo indietro fra gli sconfitti: quello del segretario Pd Enrico Letta. L’altro grande perdente, Matteo Salvini, tenta di barricarsi in Via Bellerio. La Capitale dei mille poteri assiste intanto agli addii alle Camere degli ex potenti che non sono stati rieletti e rischiano di uscire definitivamente di scena. L’analisi di Gianfranco D’Anna

Sono molti e un tempo temuti gli ex in progress che aggirano ancora fra le istituzioni, ma sono già dei desaparecidos inghiottiti dalla sabbie mobili del voto. I palazzi della politica assistono con malcelato cinismo alla muta processione dei grandi esclusi che dicono addio al Parlamento.

Tra i novelli ex deputati e senatori figurano Luigi Di Maio (battuto dal candidato pentastellato…), Emma Bonino, il mitico fondatore della Lega Umberto Bossi, Vittorio Sgarbi, Emanuele Fiano (battuto nettamente da Isabella Rauti a Milano), e gli ex grillini di Governo Vincenzo Spadafora, Lucia Azzolina e Laura Castelli.

Pronta invece nell’eterna Roma del potere e dei poteri, la ribalta istituzionale e parlamentare per i vincitori. Lo slancio del consenso politico di Giorgia Meloni, prima ancora che elettoralmente, supera anche l’interrogativo di Pier Paolo Pasolini che filosofeggiava chiedendosi “qual è la vera vittoria: quella che fa battere le mani o battere i cuori?”.

L’applauso all’impresa da tutti definita storica della presidente di Fratelli d’Italia riassume l’emozione culturale della destra conservatrice e dei moderati, ed insieme il disagio protestatario di quella parte profonda del Paese penalizzata, se non addirittura tagliata fuori dallo sviluppo economico, dal welfare e dalla sostanziale parità d’accesso all’istruzione, alla sanità, ai trasporti. L’Italia delle periferie marginalizzate e della provincia dimenticata che finiscono sotto gli impietosi riflettori dei media soltanto per la cronaca nera o per i disastri ambientali e metereologici. L’altra faccia insomma degli oltre 35% di elettori che non sono andati a votare.

Lo spartiacque del the day after del 25 settembre è rappresentato dal fiume di parole dei perdenti e dalla sobrietà dei vincitori. “La complessa situazione del Paese richiede la collaborazione di tutti” si limita a dichiarare Giorgia Meloni, sospinta dal voto già alla soglia di Palazzo Chigi. “Tutti ci davano in picchiata e la rimonta è stata significativa: siamo la terza forza politica e quindi abbiamo una grande responsabilità” ha affermato il leader dei 5 Stelle promosso sul campo, Giuseppe Conte.

Autoanalisi della sconfitta differenziata invece per Enrico Letta e per Matteo Salvini. Prima di annunciare il proprio passo indietro e che non si ricandiderà più al congresso del partito, il Segretario del Pd ha accusato i 5 Stelle di “tradimento dell’alleanza” e di aver provocato con il ritiro della fiducia a Draghi la caduta del governo che ha spalancato le porte alla destra populista. “Serve un Congresso di profonda riflessione sul concetto di un nuovo Pd che sia all’altezza di questa sfida epocale di fronte a una destra che più destra non c’è mai stata”, ha affermato Enrico Letta con una mestizia dialettica che fa capire quanto il Nazareno sia in fibrillazione per individuare un nuovo leader.

Nessun passo di lato invece per Matteo Salvini: “Fondamentale una fase di riorganizzazione della Lega, puntando su sindaci e amministratori” dice. Dimissioni? “Non ho mai avuto così tanta determinazione e voglia di lavorare”. Così il leader della Lega, in conferenza stampa in via Bellerio a Milano, ha replicato ad una domanda sulla richiesta di dimissioni arrivata a caldo dal deputato Paolo Grimoldi. “Il mio mandato – ha aggiunto – è in mano ai militanti, non in mano a due ex consiglieri regionali e un ex deputato. Non è un’autoassoluzione, mi prendo io tutte le responsabilità, mi faccio carico degli errori. Il mio destino è in mano al partito. Tutti sono utili e nessuno é indispensabile”, ha concluso.

Nel crogiuolo ancora incandescente dei collegi , di chi viene confermato o dice addio al Parlamento, i retroscena sono molteplici.

La mappa dei collegi uninominali che sta emergendo dal voto di domenica evidenzia un bilancio netto: 60 collegi su 74 al centrodestra al Senato, e 122 su 147 alla Camera. In totale, stando ai calcoli ufficiosi sui riparti delle quote proporzionali, ciò determina che il centrodestra conquista 235 seggi su 400 alla Camera e 115 su 200 al Senato. Seguono: Centrosinistra 79 seggi a Montecitorio e 41 a Palazzo Madama, M5S con 51 deputati e 28 senatori, Azione/Italia Viva con 21 eletti alla Camera e 9 al Senato e poi Sudtiroler Volkspartei con 3 deputati e 2 senatori. Fra i big spicca il successo del first lady di Forza Italia, Marta Fascina nel collegio uninominale di Marsala, ma anche la mancata elezione di Matteo Salvini capolista al Senato in Calabria. Rientra invece a vele spiegate in Parlamento Silvio Berlusconi che ha vinto il collegio uninominale a Monza. Eletti o riconfermati tutti i vertici del Centrodestra a cominciare dalla presidente uscente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Nel centrosinistra spiccano la conferme e l’elezione di Casini e di Ilaria Cucchi. Per il Movimento 5 Stelle entrano in Parlamento gli ex magistrati antimafia Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Rao. Riconfermata a pieni volti la capogruppo al Senato Maria Castellone.

Per i duelli diretti, in Sicilia la riconfermata Stefania Craxi, presidente uscente della commissione esteri del Senato, vince la ‘disfida’ dei Craxi prevalendo sul fratello Bobo, candidato a Palermo dal Pd e che non è stato eletto. Dalla guerra delle due rose a quella molto più modesta dei più popolari garofani…

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