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Le influenze di Stati stranieri? Il modello del Fara secondo Paola Severino

Di Paola Severino

La legislazione italiana è priva di una precisa e compiuta regolamentazione per i casi in cui soggetti stranieri o comunque che agiscono nell’interesse di Stati esteri, operano per promuovere un interesse nazionale diverso da quello italiano. Il commento di Paola Severino tratto dal numero di novembre della rivista Formiche

L’interferenza di soggetti stranieri nei settori di interesse pubblico di un Paese è un fenomeno ormai alquanto diffuso che è andato assumendo diverse manifestazioni. Il legislatore nazionale ha, nel tempo, approvato normative in grado di disciplinare queste pratiche e, in ultima analisi, di limitare possibili effetti indesiderati.

Penso, tra tutti, alla legislazione in tema del cosiddetto golden power che attribuisce al governo la facoltà di esercitare determinati poteri speciali con l’obiettivo di salvaguardare gli assetti proprietari di società che operano in settori ritenuti strategici e di interesse nazionale. Se ipotesi di questo tipo trovano oggi una compiuta disciplina nel golden power, vi sono dei casi rispetto ai quali, a differenza di altri ordinamenti, la nostra legislazione è carente.

È il caso dei soggetti stranieri o comunque che agiscono nell’interesse di Stati esteri, per promuovere un interesse nazionale diverso da quello italiano, ad esempio attraverso ingerenze nel sistema dell’informazione. In simili evenienze il nostro ordinamento manca di una legge che sia ritagliata “su misura” e che permetta di assicurare una piena trasparenza quanto all’identità di tali individui, nonché, ad esempio, ai flussi di denaro che consentono di finanziare tali attività.

Alla luce della estrema rilevanza della questione e dei riflessi potenzialmente critici di una completa deregulation sul punto, ritengo essenziale che si delinei un framework normativo in materia; nel fare ciò, un valido modello da cui trarre preziosi spunti di riflessione è rappresentato dalla legislazione statunitense e, nello specifico, dal Foreign agents registration act (Fara), adottato dal 1938 per regolare la propaganda politica e poi oggetto di molteplici riforme che ne hanno spostato il focus verso le attività di rappresentanza di interessi economici da parte di agenti stranieri.

La legge si rivolge a coloro che svolgono, negli Stati Uniti, attività politica o di advocacy per conto di entità straniere, imponendo un duplice obbligo: da un lato quello di registrazione presso il Department of Justice e, dall’altro, quello di disclosure circa le relazioni intrattenute, le attività svolte e le somme di denaro versate e ricevute in loro ragione. Sono poi previste esenzioni in ragione della carica ricoperta (è il caso, ad esempio, dei funzionari diplomatici) o della particolare attività svolta. Questo sistema, allora, fornisce al pubblico l’opportunità di essere informato sull’identità delle persone che svolgono attività politiche per conto di governi, partiti politici o altri mandanti stranieri, in modo che possano orientare consapevolmente le proprie valutazioni.

A ogni modo l’aspetto, a mio avviso, qualificante della disciplina è il fatto che il Fara non vieta alcuna attività specifica, piuttosto mira ad assicurare, attraverso simili obblighi, la trasparenza e, dunque, la tracciabilità di queste attività. Si tratta allora di un modello legislativo di riferimento interessante anche per il nostro Paese; sarebbe opportuno valutare se e in che misura, nonché con quali adattamenti necessari per tener conto del nostro diverso ordinamento, costruire una legge simile anche in Italia. Naturalmente una simile strategia di riforma andrebbe inquadrata pure in un contesto più ampio avuto riguardo al dibattito, in corso da diversi anni, sulla completa regolazione sul versante interno del lobbying, così da poter distinguere con precisione i confini tra lecito e illecito nelle attività di rappresentanza di interessi.

(articolo tratto dalla rivista Formiche N°185)

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