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Berlusconi e l’Europa, un’eredità pesante. Scrive Castiglioni (Iai)

Di Federico Castiglioni

“Un’Europa etica che dovrebbe tendere a mettere da parte gli egoismi nazionali”, diceva nel 2002 l’allora premier. Un tono veramente poco pragmatico, almeno in quella occasione, che potrebbe far riflettere coloro i quali ne vorranno reclamare l’eredità in futuro. L’analisi di Federico Castiglioni, ricercatore nel programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Istituto affari internazionali

In questi giorni stiamo leggendo ricordi commossi di Silvio Berlusconi, corredati da analisi politiche che si soffermano su meriti e demeriti dei suoi quattro governi. La politica estera rientra sempre in questo elenco. Gli articoli sui giornali mi ricordano la mia infanzia: avevo circa 13 anni quando arrivò per la prima volta in casa nostra una rivista piena di immagini che ritraevano Berlusconi in un lungo album fotografico. Il libello consegnato nel 2001, dal titolo “Una storia italiana”, ritraeva l’ex presidente del Consiglio, allora ricandidato a guida della Casa delle Libertà contro l’Ulivo di Francesco Rutelli, insieme a diversi leader internazionali a lui affini. Tra questi spiccavano Jacques Chirac e Margaret Thatcher. L’intento di Berlusconi, già allora, era di caratterizzarsi come leader internazionale affidabile, nonostante il suo passato da outsider della politica e le controversie legate alle posizioni ritenute euroscettiche del suo ex ministro degli Esteri Antonio Martino (che poi sarà confermato nel 2001 come ministro della Difesa).

È curioso leggere come, dopo 22 anni, le analisi sul ruolo di Berlusconi in politica estera e in particolare nel quadro europeo siano ancora assolutamente contrastanti. C’è chi spende parole generose per gli accordi di Pratica di Mare tra Nato e Russia che lui favorì nel 2002 e chi vi vede un cedimento all’autoritarismo. Allo stesso modo, c’è chi ricorda il suo carattere europeista, non ultimo l’insospettabile avversario politico di una vita Romano Prodi, e chi preferisce rammentare il sorriso beffardo intercorso tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy nel 2011, quasi a sottolineare la debolezza e poca credibilità dell’Italia. Queste narrazioni, come spesso accade, sono entrambe fondate. Se è vero che Berlusconi fu europeista lo fu nel senso più liberale e meno federalista del termine. Come ebbe modo di dirmi lo stesso Martino nel corso di una lunga chiacchierata molti anni fa, quello che era importante per Berlusconi era mantenere un approccio pragmatico e funzionale alla politica internazionale e in particolare a quella europea. Una tradizione che si è tramandata nelle vene del centrodestra fino a oggi.

All’epoca era noto l’amore dell’allora Forza Italia per il modello di europeismo anglosassone, pur nella consapevolezza che Roma non era Londra e che i rapporti politici, economici e sociali del nostro Paese con l’Europa “carolingia” ci impedivano quell’elegante distacco mostrato nei confronti di Bruxelles dal partito conservatore britannico. Le premesse per la posizione europea dell’Italia non erano delle migliori. In Francia il presidente Chirac, il cui partito era alleato con Forza Italia al Parlamento europeo ancor prima che entrambi confluissero nel Partito popolare europeo, non teneva il presidente del Consiglio italiano in grande simpatia e lo trattava, con il suo stile caratteristico, con un misto di compiacenza e sufficienza. Un duro colpo per Berlusconi, il quale puntava a personalizzare la politica estera, talvolta anche scavalcando il ministero degli Esteri e le strutture preposte. Se i rapporti con la Francia erano questi, non potevano essere molto migliori quelli con il cancelliere tedesco socialista Gerhard Schröder, già in campagna elettorale molto critico nei suoi confronti. Con entrambi si creeranno momenti di tensione in occasione della guerra in Iraq, quando Berlusconi sostenne politicamente la necessità di intervento americano contro l’asse franco-tedesco che si stava opponendo a George W. Bush. Tuttavia, non mancarono diverse occasioni di sintonia meno conosciute, come sulla necessità di avvicinare la Russia all’Europa – esigenza condivisa da tutti i leader del tempo e in particolare dalla Germania – o di dotare l’Unione europea di un trattato costituzionale che ne potesse rafforzare l’autorevolezza interna e internazionale.

Ma pur a fronte di questo rapporto altalenante con Parigi e Berlino la posizione italiana nel contesto europeo negli anni 2001-2006 non fu mai debole. In effetti, uno dei più grandi successi dell’allora governo fu di immaginare un sistema di alleanze alternative con cui bilanciare la stretta collaborazione franco-tedesca. Questo sistema alternativo passava per il Regno Unito di Tony Blair (chi meglio di un laburista liberale per rappresentare la posizione italiana?) e per la Spagna di José María Aznar. Gli uomini chiave per dare un senso alle intuizioni dell’allora presidente del Consiglio (e rimediarne occasionalmente gli errori) erano Gianni Letta e l’ambasciatore Giovanni Castellaneta. Alla guida della Farnesina dopo la parentesi dell’ambasciatore Renato Ruggiero arrivò Franco Frattini, il quale costruirà nel corso degli anni una propria credibilità sullo scenario internazionale, e poi Gianfranco Fini, il quale nel corso del suo anno e mezzo alla guida del dicastero mostrò un vivo interesse per il processo di integrazione europea.

Il quarto e ultimo mandato di Berlusconi dal 2008 al 2011 si rivelò meno felice del primo. Il contesto europeo era totalmente cambiato, così come i leader e le priorità politiche. Avere due governi di centro-destra e con partiti appartenenti al Partito popolare europeo a guida di Francia e Germania non aiuterà molto Berlusconi, visto che sia Sarkozy sia Merkel non nasconderanno mai la disistima nei confronti del presidente italiano. Una disistima reciproca, come si può dedurre anche dalle dichiarazioni ufficiali, e alimentata dagli scandali di quegli anni. È dal 2009 in particolare, ossia dall’inizio della questione Tarantini, che le cose si faranno ancora più difficili. Per un leader che aveva costruito molto sui rapporti personali e sulla propria immagine fu arduo assistere alla cattiva pubblicità che veniva propagata sul suo conto in tutto il mondo. La politica estera italiana ne risentì, come era inevitabile.

Gli alleati di un tempo, nel mentre, erano spariti: in Spagna il progressista José Luis Rodríguez Zapatero aveva ben pochi incentivi per offrire una sponda all’Italia, così come il laburista Gordon Brown, ben diverso da Blair per carattere e direttrici di politica estera. Alla Casa Bianca, Barack Obama aveva vinto la campagna elettorale proprio promettendo di rimediare agli errori dell’alleato e amico di Berlusconi, George W.Bush, e l’avvicinamento di Nato e Unione europea alla Russia di Vladimir Putin era stato irrimediabilmente compromesso dalla rivoluzione arancione in Ucraina e dal conflitto in Georgia. Allo stesso tempo, le priorità di politica estera erano cambiate. Il tema della crisi finanziaria era divenuto predominante e l’Italia si trovava da Paese in modesta crescita ad epicentro della crisi dei debiti sovrani in Europa. I sorrisini di Merkel e Sarkozy, la lettera della Banca centrale europeo e l’intervento in Libia furono solo diversi capitoli di una caduta precipitosa sul piano internazionale. Da punto di forza, la politica estera in generale ed europea in particolare era divenuto il tallone d’Achille del presidente del Consiglio.

La verità è che la storia di quegli anni deve ancora essere scritta. Lo stesso Berlusconi, prendendo la guida degli Esteri per un breve periodo dopo le dimissioni dell’ambasciatore Ruggiero, rilasciò diverse dichiarazioni sulla sua idea d’Europa. Una in particolare, pubblicata sul giornale francese Le Monde nel gennaio 2002, merita attenzione. “I nostri padri vollero l’Europa non per la costruzione di un’unione economica o commerciale ma per un’unità spirituale dei popoli europei, divisi da guerre civili e totalitarismi”, scriveva. “Un’Europa etica che dovrebbe tendere a mettere da parte gli egoismi nazionali”. Un tono veramente poco pragmatico, almeno in quella occasione, che potrebbe far riflettere coloro i quali ne vorranno reclamare l’eredità in futuro.

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