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Il nuovo corso di Erdogan tra turbolenze e proiezione internazionale. Scrive Fracchiolla

La politica assertiva e di ampio respiro di Erdogan prende le mosse dalla teoria della profondità strategica e della Patria blu, per alleviare il peso delle crescenti difficoltà politiche, economiche e sociali, facendo leva sulle risorse geopolitiche della Turchia. L’analisi di Domenico Fracchiolla, docente Luiss e Università di Salerno e autore de “Il sultano in bilico. Storia delle relazioni internazionali della Turchia contemporanea” (Cleup, 2023)

Con la fine della democrazia in Turchia tramonta il sogno di una democrazia musulmana, secondo la formula di Ankara che per decenni sembrava potesse diventare un modello di moderazione e laicità per altri paesi musulmani, come strumentalmente proposto anche da Erdogan agli albori della Primavera Araba. Riconfermato per il terzo mandato Presidente della Repubblica con il 52,16% dei voti contro il 47,84% dei consensi dello sfidante Kilicdaroglu, Recep Tayyip Erdogan continua l’opera di indebolimento dello stato di Ataturk, tanto che, a parere di quasi tutti gli osservatori, le elezioni, libere ma non eque (free but not fair), si sono celebrate in un clima teso per la stampa imbavagliata e molti oppositori politici in galera – si parla di quasi 300 arresti tra il primo e il secondo turno tra le fila del partito curdo. La capacità di portare la campagna elettorale sui temi dell’identità e sulla centralità della sua leadership, l’unica in grado di garantire stabilità, eludendo temi caldi quali l’incapacità di affrontare la gestione dei soccorsi dopo il terremoto, la scelta di combattere l’inflazione con la politica di alti tassi d’interesse ed in genere la gestione deficitaria della grave crisi economica, è stata possibile per il patrimonio di credibilità che Erdogan ha maturato in 20 anni di governo dell’AKP, soprattutto per gli importanti risultati economici e sociali raggiunti.

Lo zoccolo duro del grande consenso di cui ancora Erdogan gode proviene dal voto delle classi operaie, contadine e della piccola borghesia e imprenditoria delle aree interne del paese, che hanno visto migliorate le proprie condizioni di vita e che credono fermamente in Babà Erdogan. Aree del paese un tempo sottosviluppate, che negli anni si sono trasformate nel miracolo dello sviluppo della tigre dell’Anatolia, attirando investimenti e delocalizzazioni. Il PIL pro capite della Turchia si è quasi triplicato, raggiungendo all’incirca i 10500 dollari, che Erdogan ha dichiarato in campagna elettorale di voler portare a 15000 dollari. La legittimazione del governo è salva. Tuttavia, mentre l’opposizione si richiama ad una legittimazione democratica, tesa al ristabilimento dello stato di diritto, la coalizione che sostiene Erdogan si basa sulla legittimazione autoritaria da coalizione dominante, stretta intorno al leader carismatico, che esclude larghi settori della società e favorisce solo alcuni segmenti.

Legare un paese alle sorti del leader carismatico, subire gli attacchi alla laicità dello stato e alle libertà individuali, le pressioni sul sistema giudiziario, la concentrazione dei media, gli arresti degli oppositori politici, la strumentalizzazione del processo di democratizzazione (richiesto dall’UE) per eliminare gli avversari e sostituirli con il proprio sistema di potere, indebolisce e rende fragile il regime politico e le istituzioni dello stato, ponendo incognite pesanti sulla successione del leader. Rispetto allo schema classico delle transizioni autoritarie, Erdogan non possiede il supporto fondamentale dei militari, che anzi sono storicamente i suoi principali avversari. Custodi della laicità dello stato e delle libertà, la casta dei militari, in cambio di sostanziali privilegi economici, sociali e istituzionali, ha difeso la Repubblica nei 100 anni di storia repubblicana, con ripetuti interventi nell’arena politica, quando i valori Repubblicani erano a rischio. Militari custodi, quindi, che con i golpe del 1960, 1971, 1980 e quello postmoderno non violento del 1997, solo con un ultimatum con cui imposero le dimissioni del governo islamista di Necmettin Erbakan (di cui Erdogan era un esponente politico), proteggono la laicità della Costituzione.

In difficoltà all’interno del paese per la crescente opposizione, che per la prima volta lo costringe al ballottaggio, il Presidente è fortemente determinato sul piano dell’azione diplomatica. La politica assertiva e di ampio respiro prende le mosse dalla teoria della profondità strategica e della Patria blu, elaborate negli anni. La linea diplomatica seguita prevede di alleviare il peso delle crescenti difficoltà politiche, economiche e sociali, facendo leva sulle risorse geopolitiche della Turchia. La politica estera è posta al servizio delle esigenze della politica interna. Pertanto, anche nel futuro prossimo, il giano bifronte della politica internazionale continuerà ad essere un alleato importante e costoso dell’Occidente: un riottoso membro della NATO e un partner interessato e opportunista dell’UE. Al tempo stesso, Ankara continuerà anche a rivolgere le sue attenzioni al Grande Medio Oriente, sottolineando i legami storici, culturali, linguistici e identitari, in direzione dell’Asia centrale (l’antico Turkestan, oggi rappresentato nell’Organizzazione degli stati turchi), del Caucaso, del Mediterraneo Orientale, dei Paesi del Golfo, dei Balcani occidentali, senza dimenticare l’interesse per l’Africa.

In realtà, questa politica dispendiosa e velleitaria, ribattezzata Neo Ottomana, non è più sostenibile su larga scala, perché sono venuti meno i presupposti che l’avevano resa possibile: lo sviluppo economico tumultuoso della tigre anatolica e le prospettive di espansione della primavera araba, da tempo tramutata in un lungo inverno di autoritarismo e instabilità. Ad ogni modo, alcuni risultati regionali degni di nota per la politica di potenza di Ankara si sono realizzati in Medio Oriente. Nella santabarbara siriana, Erdogan recupera i rapporti, anche personali, con il dittatore Assad e utilizza la difesa del lungo confine di 900 km con la Siria, per sferrare duri colpi ai curdi, spesso in territorio siriano, trovando un piano comune di interessi con l’Iran, parimenti interessato a reprimere l’anelito di libertà dello sfortunato popolo curdo.

Con le Monarchie del Golfo costruisce strettissimi rapporti di amicizia, con il Qatar nella comune matrice islamista che lo porta a sostenere l’effimero governo della Fratellanza Musulmana di Morsi, in Egitto, nel 2012, e a recuperare le relazioni con l’Arabia Saudita, incrinate dopo la crisi del Golfo del 2017. Ma è soprattutto in Libia e in Nagorno Karabach che Erdogan consegue i risultati più significativi della sua politica estera: la Turchia torna ad essere un attore centrale in Libia, a100 anni dalla sconfitta militare dell’Impero Ottomano ad opera del Regno d’Italia nel 1912, sostenendo, con truppe di terra, le forze leali al presidente Al Serraji. Nel conflitto di lungo corso tra Armenia e Azerbajian per il controllo dell’enclave del Nagorno Karabach (1992-1994, 2020) Erdogan contribuisce con le sue forniture di droni alla vittoria azera del 2020, rispettando la memoria di solidarietà turca del sibling’s aids (finanziamenti, equipaggiamenti e arruolamenti volontari) ricevuti dall’Impero Ottomano dai fratelli azeri durante le guerre balcaniche (1912-1913), la Prima guerra mondiale (1914-1918) e la guerra d’indipendenza turca (1919-1922).

Venute meno le condizioni di contesto nel lungo periodo, oggi, le condizioni esterne per il mantenimento della politica estera di Erdogan sono: la disponibilità dell’Occidente di pagarne il prezzo (economico e politico) e l’avvicinamento tattico con la Russia. L’Occidente, sempre più in difficoltà su dossier fondamentali, come i migranti e la guerra in Ucraina, ricorre all’alleato turco: l’UE chiude la via dei Balcani ai rifugiati, firmando, nel 2016, un accordo finanziario molto oneroso con Erdogan per la costruzione di campi di accoglienza, mentre la NATO, in questi mesi, è costretta ad accondiscendere alle richieste di Erdogan per ottenere la rimozione del veto all’allargamento alla Finlandia (nel mese di marzo, dopo un anno, a spese dei curdi) e alla Svezia (non ancora concesso). Passando ai rapporti con la Russia, nel corso della storia, più volte, in situazioni di isolamento internazionale, i due paesi hanno sviluppato forme di collaborazione diplomatica, come con il Trattato di Mosca del 1921, all’indomani del rifiuto di Ataturk di ratificare il Trattato di Sevres, durante la guerra di liberazione nazionale, mentre i bolscevichi consolidavano il loro potere in Russia.

Tuttavia, nonostante le dichiarazioni di Erdogan, la special relationship e l’alleanza strategica tra Ankara e Mosca non sono realizzabili in modo strutturale: le due potenze presentano una naturale contrapposizione geopolitica, politica e storica che le vede fronteggiarsi sul Mar Nero, nel Caucaso e in Asia Centrale. L’antica aspirazione della Russia, mai risolta, di avere l’accesso ai mari caldi e il controllo della porta del Caucaso, tra il 1568 e il 1917 ha prodotto 12 guerre tra l’Impero Ottomano e l’Impero Zarista. Le ragioni di quelle contrapposizioni, oggi, con l’aggiunta del dossier energetico di aree interessate al passaggio di oleodotti, gasdotti e ricche di risorse, non solo non sono venute meno, ma si sono moltiplicate.

Secondo una ricerca del German Marshall Fund, sul piano diplomatico, buone chances di successo internazionale deriverebbero dalla posizione della Turchia di swing states, ovvero dalla capacità di sviluppare una cooperazione internazionale trasversale, come altre “grandi democrazie”, quali Brasile, Indonesia e India, capaci di dialogare con paesi con cui l’Occidente è in difficoltà, come la Russia, l’Iran e anche la Cina. Invero, questa politica presenta criticità importanti, nel fragile consolidamento democratico di questi paesi, il cui fallimento, come in Turchia, getta discredito e toglie credibilità ai possibili risultati raggiunti. Non è il mancato rispetto dei principi universali a preoccupare, ma il prezzo richiesto alla Comunità internazionale in termini di vantaggi competitivi sleali, importazione di dumping economici e sociali, aumento delle disuguaglianze e l’affermazione di agende politiche nazionali aggressive e pericolose per la stabilità (come le dispute tra Turchia e Grecia, tra Turchia e Cipro, i rischi di un’azione della Serbia in Kosovo e le minacce della Cina a Taiwan).

Nel frattempo, la Turchia si attribuisce il merito di aver negoziato con successo nella guerra tra Russia e Ucraina, l’apertura del corridoio per il transito delle navi mercantili di cereali e grano per l’Africa, potendo vantare rapporti buoni anche con l’Ucraina, a cui fornisce droni ed equipaggiamento militare. Per dirla con Robert Dahl, per diversi decenni la Turchia è stata una oligarchia includente in transizione verso il consolidamento democratico. Erdogan ha deviato il tracciato di questo processo verso la direzione di un’egemonia chiusa, una transizione autoritaria di cui è il principale artefice. La trasposizione delle turbolenze e delle aspirazioni interne nella politica internazionale, che diventa subordinata e funzionale a quella interna, comporta un pericolo grave e oggettivo per la stabilità internazionale e per l’intero Occidente.

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