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Tassare gli extra profitti delle banche: perché sono d’accordo. La versione di Polillo

Il messaggio ai naviganti è: attente a quello che fate se vi accecherà, come avvenuto in questi ultimi due anni, il delirio dell’onnipotenza, in salsa oligopolista, sappiate che il governo è pronto ad intervenire. Meglio allora che abbiate più cura dei vostri clienti

Bel colpo lady Giorgia! La decisione di tassare gli extra profitti delle banche è, al tempo stesso, giusta è doverosa. Prima di vedere perché, un piccolo riepilogo. All’inizio, il calcolo della base imponibile doveva basarsi “sull’ammontare del margine di interesse di cui alla voce 30 del conto economico relativo all’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2023 che eccede per almeno il 3% il medesimo margine nell’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2022”. Operazione che doveva essere ripetuta anche per il 2024.

Ipotesi subito azzerate da un successivo comunicato di Palazzo Chigi che precisava, secondo quanto riportato dall’Ansa: “Il prelievo del 40% sugli extraprofitti delle banche” scatterà se il margine di interesse registrato nel 2022 “eccede per almeno il 5%” il valore dell’esercizio 2021. Percentuale che sale ad “almeno il 10%” confrontando il 2023 col 2021. Alla luce di queste ultime precisazioni è stato calcolato che il prelievo inciderà per il 10 per cento sui profitti delle banche. Il che giustificherebbe ampliamente il crollo che ha accompagnato i titoli bancari il giorno successivo alle decisioni del Consiglio dei ministri. E che ha riguardato anche gli Istituti di credito esteri. Tutti preoccupati per un eventuale effetto imitativo, dopo che la Spagna aveva assunto una analoga decisione.

L’idea era quella di recuperare almeno 3 miliardi l’anno (per le nuove stime si dovrà attendere) da utilizzare per il taglio del cuneo fiscale ed eventualmente per ridurre la rata di mutuo per i debitori più indigenti. Soprattutto se giovani. Misura che ha tacitato le eventuali vittime, che al momento non hanno parlato. Lo stesso Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, aveva lasciato intendere di essere pronto a pagare il dovuto: a condizione che le maggiori entrate fossero destinate a finanziare la lotta alle disuguaglianze.

I dati del contendere possono essere così riassunti, considerando il dato aggregato delle prime cinque banche italiane: Intesa, Unicredit, BancoBpm, Bper e Mps. Nel 2020 e nel 2021 il margine di interesse è stato rispettivamente pari a 38,74 miliardi e a 38,41 miliardi di euro. Nel 2022, invece, il margine è stato di 45,52 miliardi, con un aumento di 7,11 miliardi pari al 18,5% rispetto all’anno precedente. Nel primo semestre di quest’anno, poi, le cinque banche hanno già accumulato un margine di interesse di 40 miliardi di euro. Anche nel 2018 e 2019 il margine di interesse era stato particolarmente elevato, pari a rispettivamente di 41,88 e 40,05 miliardi. Ma allora il tasso d’inflazione era inesistente.

Dallo scorso luglio, invece, l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati è aumentato del 14,3 per cento, rispetto al precedente biennio. Il che ha comportato una riduzione corrispondente del patrimonio familiare, tenuto in forma liquida presso il proprio conto corrente, oppure nei depositi bancari. Una sorta di patrimoniale che le banche hanno trattenuto nei loro bilanci, aumentando il conto dell’attivo. Gli interessi attivi, quelli praticati alla clientela (mutui, anticipazioni, scoperto di conto e via dicendo), aumentavano, infatti, su input della Bce, mentre quelli passivi (pagati ai depositanti) rimanevano pari allo zero assoluto. Quando poi la gestione del conto, per effetto delle spese, il più delle volte risultava negativa. Insomma portare i soldi in banca per molti anni aveva rappresentato un onere, non un vantaggio per il risparmiatore.

Un simile comportamento, continuamente avallato dalla Bce, trovava una qualche giustificazione da un punto di vista più generale? C’è da dubitarne fortemente. L’inflazione italiana ed europea, a differenza di quella americana, dà costi. Conseguenza del drammatico trasferimento di reddito a favore dei Paesi esportatori di prodotti energetici (gas e petrolio) ed agricoli, a partire dal grano. Trattandosi di prodotti primari diminuirne il consumo, con misure rivolte a comprimere il Pil, rappresenta un esercizio non solo ad alto rischio, ma estremamente costoso. A mero titolo d’esempio, dati i rapporti input-output, un punto in meno di Pil può comportare una riduzione del consumo di quei prodotti in un margine compreso tra uno 0,2 ed uno 0,3. Troppo poco per giustificare la stangata.

Alzare un po’, ma non in quella misura e con quella tempistica, i tassi d’interesse era comunque necessario, per ritardare il passaggio delle tensioni inflazionistiche dai prodotti, precedentemente, indicati al complesso dei beni di consumo finale. Al tempo stesso, tuttavia, sarebbe stato utile spingere le banche a remunerare i depositi. Non avendolo fatto, chi poteva permetterselo ha accelerato gli acquisti, per evitare di dover pagare, nell’immediato futuro, un prezzo maggiore. Agendo in questo modo la Bce con la mano destra ha stretto i cordoni, sul fronte dei finanziamenti. Ma con la sinistra ha spinto a consumare di più, ottenendo l’effetto contrario.

L’intervento del governo, mira quindi a ristabilire, seppure ex post, una certa coerenza, anche se motivata da una prevalente preoccupazione di carattere sociale. Ma è anche un monito nei confronti delle grandi banche ad operare con maggior giudizio. Attente a quello che fate – questo il messaggio ai naviganti – se vi accecherà, come avvenuto in questi ultimi due anni, il delirio dell’onnipotenza, in salsa oligopolista, sappiate che il governo è pronto ad intervenire. Meglio allora che abbiate più cura dei vostri clienti. Ricordandovi che i risparmiatori non possono essere trasformati impunemente in quel parco buoi su cui, in passato, si sono consumate le più spericolate azioni di borsa.

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