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Dalla stretta cinese sulle terre rare al disegno contro l’Occidente. La mappa di Torlizzi

Pechino si attrezza per limitare l’esportazione delle terre rare e altre materie prime. Come chi vende idrocarburi, preferisce mantenere i prezzi alti a lungo rispetto a provocare uno shock. L’inflazione delle materie prime è l’arma con cui logorare l’Occidente, e senza un approccio strategico l’Ue rischia di uscire ammaccata dal confronto Usa-Cina. L’esperto di commodities e consigliere alla Difesa legge l’attualità

C’è aria di nuovi controlli alle esportazioni dalle parti di Pechino. Martedì il ministero del commercio cinese ha annunciato che richiederà ai commercianti di greggio, minerale di ferro, concentrato di rame e potassio di fornire informazioni in tempo reale sulle spedizioni. Vale anche per gli esportatori di terre rare, fondamentali per le tecnologie verdi. Tra gli scopi dichiarati c’è “ridurre la cecità” monitorando attentamente i flussi di materie in entrata e in uscita e “guidare” gli operatori “a importare ed esportare in modo ordinato”, si legge nel comunicato ufficiale.

Si tratta dell’ennesima stretta cinese sul comparto delle materie prime. La mossa fa presagire un intervento statale sui flussi commerciali, che in tempi di rivalità sistemica sono sempre più un canale attraverso cui esercitare influenza. Così Formiche.net ha contattato Gianclaudio Torlizzi (consigliere del ministro della Difesa, fondatore della consultancy T-Commodity e membro del Comitato Scientifico del Policy Observatory dell’Università Luiss) per contestualizzare la notizia.

Cosa vede in questa manovra?

Il governo cinese che compie un nuovo salto di qualità nel processo di militarizzazione delle materie prime. Contingentando l’esportazione delle famose terre rare, seguendo l’impostazione che già aveva anticipato con le restrizioni all’export di gallio e germanio e poi della grafite. I primi due erano maggiormente rivolti al comparto della difesa, mentre grafite e terre rare riguardano anche il mondo del green tech (pale eoliche, pannelli solari, batterie…). La mossa va letta come una ritorsione per il secondo giro di vite degli Stati Uniti sull’export dei semiconduttori, che serviva per chiudere le scappatoie del primo.

Dunque la stretta cinese va ricondotta alla competizione con gli Usa?

Sì, assistiamo a una dinamica “occhio per occhio” dove ognuno utilizza le armi a sua disposizione: Washington usa la sua leadership nell’ambito dei semiconduttori e in quello monetario (attraverso il dollaro), Pechino il suo controllo su metalli e materie prime, come ha fatto Mosca col gas. L’aspetto interessante è che contestualmente alla stretta sulle terre rare, il governo cinese aumenta il controllo anche su altre materie prime strategiche, ossia rame, potassio, petrolio. Non è ancora dato sapere il motivo per cui vuole che si rendicontino in tempo reale i dati sui flussi; c’è chi dice che questo continuo stoccaggio è la fase preparatoria di un peggioramento della “guerra fredda”.

C’è anche chi pensa che ammassare commodities per poi favorire l’oversupply sia una strategia economica.

Sì, quella è l’altra faccia della medaglia: oltre alla militarizzazione, la nazionalizzazione delle commodities, ossia controllare sempre più le materie prime sia per utilizzarle come arma, sia per gestire eventuali fasi future di carenza. Nelle ultime settimane, parlando delle restrizioni cinesi su gallio, germanio e grafite, alcuni hanno detto che l’impatto sul prezzo è stato risibile e che dunque si tratta di manovre cosmetiche. È un grave errore oltre che una visione superficiale. Rimanendo sul parallelismo con la guerra fredda, bisogna capire che l’intento del blocco orientale non è quello di strozzare l’Occidente, quanto quello di creare una carenza latente, delle problematiche costanti sulle supply chain, delle tensioni regolari su flussi di materie prime per mantenere alta l’inflazione, che a sua volta fiacca l’economia ed erode la tenuta delle società.

Legge con la stessa lente la decisione di Russia e Arabia Saudita di continuare con il taglio alla produzione del petrolio?

Certo, e vale anche per il comparto del gas. Gli attori coinvolti non stanno creando uno shock energetico perché non ne hanno interesse, nonostante la crisi in Medioriente abbia fornito le basi per farlo. Se il leader di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah avesse alzato i toni e dato il via a un allargamento del conflitto, sarebbe scattata la crisi. Invece player come l’Arabia Saudita sono concentrati su progetti a lungo termine come Vision 2030 e il corridoio Imec. Loro hanno intenzione di incassare quanto più possibile in relazione ai nostri consumi: se oggi stringono il cappio sull’offerta possono anche provocare un picco nei prezzi, ma sfiammerebbe immediatamente perchè noi siamo in contesto di recessione. Quindi c’è tutto l’interesse anche da parte dell’Iran a continuare a vendere petrolio ma mantenere tensione nel mercato, tale per cui prezzo del Brent rimanga sopra i 70 dollari al barile – decisamente più alto rispetto al pre-pandemia.

Quindi, in questo contesto, l’arma ibrida contro l’Occidente è l’inflazione?

Il coefficiente inflazionistico è lo strumento attraverso cui il “blocco orientale” intende fiaccarlo. Anche l’Occidente ha le sue armi, ma attenzione: quando si abusa della restrizione monetaria si genera un contraccolpo sull’economia. Per esempio, il fatto che la Banca centrale europea abbia imitato la Federal Reserve Usa con la frenata sul rialzo dei tassi dimostra quanto possa essere doloroso: negli States si raffreddano i prezzi e si va verso un soft landing, mentre il settore manifatturiero europeo è a terra. È evidente che le commodity siano il fulcro su cui si giocherà la guerra economica.

Tutto questo avviene alla vigilia del probabile vertice tra Xi Jinping e Joe Biden, con la segretaria al Tesoro Janet Yellen che questa settimana incontrerà il vicepremier cinese He Lifeng per una due giorni di “diplomazia intensiva”. Cina e Usa mandano segnali di distensione e promettono di aumentare il dialogo sulle questioni commerciali per evitare che le incomprensioni diventino frizioni. Come inquadra la stretta cinese in questo contesto?

Come una tattica per prendere tempo. L’amministrazione Biden cerca tutti gli elementi per evitare l’emergere di crisi geopolitiche e inflazionistiche nel 2024, anno delle elezioni statunitensi. Pechino ha bisogno di almeno cinque anni per parametrare il suo sistema di difesa a quello di Washington, quindi non ha interesse ad arrivare a un redde rationem di tipo militare nel breve periodo. Il dilatarsi dei tempi va a sfavore dell’Occidente, banalmente perché quest’ultimo risponde a logiche democratiche, e tra un’elezione e l’altra la Cina può far filtrare le proprie istanze nell’elettorato. Gli incontri tra ufficiali cinesi e statunitensi possono essere letti come una presa di fiato: serve una pausa a entrambi.

Ma non nell’ottica di evitare un confronto più in là?

Dubito. Queste nuove restrizioni cinesi – a cui faranno seguito delle altre, ormai il gioco è questo – contribuiranno a mantenere alta l’inflazione, depauperando le classi meno abbienti e aumentando i costi di finanziamento dei governi (ricordo che al momento serve offrire rendimenti maggiori per finanziare il debito emesso, con impatto negativo sui conti pubblici). È una classica situazione da guerra fredda. Ma in mezzo a queste due superpotenze ci siamo noi europei, che stiamo risentendo della guerra dell’energia con la Russia e abbiamo un’economia in profonda recessione, almeno per quanto riguarda la manifattura. E nonostante tutto questo la Commissione europea non fa nulla per modificare i piani climatici, uno dei motivi per cui abbiamo una grande vulnerabilità strategica nei confronti di Cina e Russia.

Eppure Bruxelles sta alzando i toni nei confronti di Pechino, specie nel settore del green tech e della dipendenza da importazioni strategiche, ma anche della coercizione economica. L’Ue è nella posizione di affrontare le pratiche cinesi?

No. Almeno non finché il suo processo decisionale risponde a logiche mercantilistiche e non strategiche. Molti regolamenti europei sono frutto di forti pressioni dei gruppi di interesse più strutturati e organizzati e mancano di una visione strategica di lungo termine. Lo dimostra, appunto, il caso delle politiche climatiche, che non solo non sono state riadattate per rendere gli obiettivi più realistici ma non aiutano nemmeno sul lato dell’offerta. Il famoso Critical Raw Materials Act al momento rimane inattuato, e il fatto che i Paesi europei non stiano rispondendo alle pressioni migratorie dall’Africa con engagement più attivo con i Paesi africani anche nel comparto minerario dimostra quanto sia strategicamente debole la visione Ue.

Quali le conseguenze?

Non avere una visione strategica significa affidarsi ai grandi attori industriali per obiettivi di policy e poi dover fare imbarazzanti dietrofront. Non sta alle imprese dettare la linea: lo dimostra l’esempio dell’industria automobilistica tedesca, che si è fatta abbagliare dall’accesso al mercato cinese e oggi vede gli automaker cinesi che si impossessano di quel mercato e guardano a quello europeo. O anche la crisi dei player dell’eolico. Il punto è che l’approccio puramente mercantilistico, normale per un’azienda, non può guidare anche il decisore politico. E con gli investimenti immensi che l’Ue sta mettendo in campo potevamo farci una politica industriale veramente seria anziché ricorrere a questo dirigismo economico.

E i rimedi?

Ormai è inutile aspettare che questa Commissione cambi rotta: auspico che la prossima operi una revisione totale, strategica ed economica delle politiche climatiche da cui dipende gran parte della vulnerabilità europea. Oggi il Green Deal assorbe denaro, non produce ritorni e aumenta la dipendenza nei confronti della Cina a livelli tali che sembra scritto apposta. In palio c’è il benessere della società europea e occidentale; sembra che non si voglia parlare di lungo termine, ma l’Ue rischia di uscire dal confronto tra superpotenze molto ammaccata.

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