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Il Pd ascolti la lezione di Romano Prodi. La versione di Bazoli

Conversazione con il parlamentare dem bresciano: “Un federatore per il centrosinistra? Prima individuare un terreno comune con gli alleati. Il centrodestra? Resta forte perché manca ancora un’alternativa. Schlein candidata alle europee? Scelta solo sua, ma…”

Se non ci fosse stata la crisi di governo che ha fatto cadere Mario Draghi il Pd di Enrico Letta se la sarebbe giocata alle scorse elezioni politiche con il partito di Giorgia Meloni, riflette con Formiche.net il deputato bresciano del Pd Alfredo Bazoli, che condivide l’analisi fatta dal prof. Romano Prodi: ovvero che il centrosinistra non è ancora un’alleanza compatta, unitaria che possa rappresentare l’alternativa all’attuale maggioranza.

Secondo Prodi il centrodestra resta forte perché manca ancora un’alternativa: ha ragione?

Sì, finché non sarà percepita in Italia una coalizione alternativa, in grado di competere per conquistare la maggioranza degli elettori e l’opposizione resterà divisa in tre o in quattro pezzi. Così come è oggi, l’opposizione non è credibile come alternativa: tutto ciò indebolisce enormemente tutti a partire dal principale partito dell’opposizione che è il Partito Democratico.

Manca un federatore, così come è stato per il centrodestra ieri Berlusconi e oggi Meloni?

Mancano ancora i presupposti politici per riuscire a mettere insieme le diverse posizioni, ovvero si fatica a trovare un terreno d’intesa. Purtroppo ci sono ancora molte incompatibilità e molte resistenze a trovare un’intesa comuni: il problema è tutto politico e la politica deve risolverlo, ma in questo momento è un esercizio molto complicato.

Come risolvere il puzzle?

Da lì bisogna partire, prima ancora di pensare al federatore o a una competizione in stile centrodestra, in cui chi arriva primo fa il leader della coalizione. Bisogna trovare i terreni di intesa attraverso la politica su cui mettere insieme partiti e movimenti che oggi faticano a trovare una strada comune. Penso alle tematiche concrete.

Ci aveva provato Enrico Letta con le agorà territoriali proprio perché tematiche, o no?

Letta aveva fatto un buon lavoro e se non ci fossero state le elezioni repentine, quando venne tolta la fiducia al governo Draghi da parte del Movimento Cinque Stelle e poi del centrodestra, io penso che avrebbe avuto un seguito quel lavoro di faticosa cucitura di una alleanza larga. Quello sforzo credo che avrebbe potuto andare a compimento. La scelta di Conte di far cadere Draghi ha pregiudicato la possibilità di un’alleanza e, in seguito, c’è stata la scellerata mossa di Calenda di fare l’alleanza, salvo poi smentirla pochi giorni dopo. Tutto questo ha costretto il Partito Democratico ad andare sostanzialmente da solo alle elezioni: ciò lo ha enormemente indebolito rispetto alle sue potenzialità. Questa mia analisi è testimoniata dal fatto che quando siamo entrati in campagna elettorale per le elezioni anticipate il Pd era accreditato di un risultato molto buono, addirittura competeva con la Meloni per diventare il primo partito italiano. Ma a urne chiuse il risultato è stato molto modesto: io penso che questo sia dovuto in maniera molto rilevante alla circostanza che il Pd da solo non era percepito come un’area alternativa al centrodestra compatto.

Pier Luigi Bersani chiede ai dem di non stare tutti i giorni sulle candidature, ma di avere un profilo programmatico più netto: in che modo?

Intanto il profilo programmatico lo si trova anche attraverso le scelte che facciamo come opposizione al governo Meloni, che è un governo deludente sotto il profilo economico perché il paese è in una fase di stagnazione economica. È deludente anche sotto il profilo della tutela dei diritti di welfare, che oggi sono minacciati dall’erosione delle politiche sociali, sia che riguardino l’istruzione, che la sanità. È un governo inadeguato per quanto riguarda le politiche dei redditi e del lavoro, perché non ha fatto nulla per consentire un miglioramento delle condizioni reddituali dei lavoratori. Queste le premesse di merito per individuare il profilo politico e programmatico, però parallelamente occorre costruire le ragioni di una convergenza con le altre forze di opposizione. È un lavoro complicato e difficile, ma da lì bisogna partire.

La candidatura di Schlein alle europee è più un bene o un rischio?

La penso come Prodi, nel senso che tutto sommato è sempre bene che chi si candida lo faccia con l’idea di andare a ricoprire il ruolo per il quale si candida. Dopodiché ci sono certi frangenti della vita politica di un partito in cui la candidatura di un leader può anche servire per trascinare il partito nei consensi. È una valutazione che spetta solo alla Schlein. Io penso che tutto sommato le ragioni che porta Prodi siano ragioni abbastanza solide.

Quale l’obiettivo del Pd alle europee?

L’ambizione Pd non può che essere quella di diventare il primo partito italiano in linea generale, se il Pd si accontenta di vivacchiare al 18% vuol dire che ha rinunciato alla sua vocazione di maggioranza, incarnando il senso del partito guida del centrosinistra. Penso a un partito della nazione come definito da Beniamino Andreatta. Dopodiché in questa particolare contingenza storica per le ragioni che abbiamo detto è chiaro che non possiamo ambire a risultati stratosferici. Però mi auguro che almeno si resti sopra l’asticella del 20%.

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