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Terre rare, così Pechino consolida il controllo sulle industrie di Stato

Secondo quanto riporta il giornale Xincaifu, il 1 gennaio è avvenuto un ulteriore consolidamento dell’industria delle terre rare, attraverso il trasferimento delle quote azionarie del quarto colosso cinese sotto il primo, China Rare Earth Group. Un ulteriore mossa che riduce a tre i campioni nazionali. Ecco le ripercussioni

In una fase di tensioni geopolitiche acute e di crescente rilevanza delle materie prime critiche utilizzate in numerose tecnologie digitali e low-carbon, la Cina ha deciso di consolidare ulteriormente il controllo sull’industria delle terre rare. Pechino ha visto, infatti, diminuire la sua quota di estrazione di questi elementi dai minerali ospitanti di oltre il 30% nell’ultimo decennio. Ma con il proposito di consolidare le fasi a più valore aggiunto nella catena del valore: dalle miniere ai magneti.

Secondo quanto riportato dal quotidiano Xincaifu, Pechino avrebbe deciso di trasferire il 100% del controllo azionario di Gunagdong Rare Earth Group, quarto produttore e compagnia di Stato, sotto l’egida di China Rare Earth Group il 1 gennaio del 2024. In seguito al trasferimento, l’industria cinese delle terre rare diventa, dunque, ancor più oligopolistica passando da quattro a tre entità, tutte sotto il ferreo controllo e supervisione del potente Ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione (Miit).

In questo modo, tre compagnie di stato ora sarebbero responsabili del 90% circa delle operazioni domestiche. Storicamente, il consolidamento e integrazione verticale dell’industria delle terre rare ha seguito una duplice logica. Da una parte, conservare le riserve e risorse nazionali – che ammontano a circa il 32% di quelle conosciute a livello globale – sia per mantenere l’autosufficienza (anche se negli ultimi anni le importazioni dall’estero, specialmente da paesi limitrofi come il Myanmar, sono cresciute soprattutto per i materiali magnetici) sia per risolvere la questione ambientale e contrastare le attività minerarie illegali. Dall’altra, perseguire gli obiettivi strategici e di politica industriale: incentivare il consumo domestico di terre rare, sfavorirne l’export e così puntare ai prodotti di punta, come i magneti permanenti.

Per farlo, il governo cinese ha costruito un complesso sistema di quote di produzione (che ha sostituito le quote di export, abolite dopo la crisi delle terre rare nel 2010 su parere negativo del WTO nel 2015) e di raffinazione, che ha via via assegnato ad un numero sempre minore di compagnie statali. Il sistema delle quote è pensato per andare incontro alla domanda nazionale, proveniente dal un centinaio di produttori di magneti, e per controllare i prezzi delle materie prime.

Il MIIT ha di recente emesso un insolito terzo lotto di quote di terre rare a China Rare Earth Group e a China Northern, portando la quota totale per l’anno a 255.000 tonnellate per l’estrazione e a 243.850 tonnellate per la separazione. Un aumento del 20% su base annua. Secondo alcune stime, China Rare Earth Group sarebbe da sola responsabile del 62% dell’estrazione e lavorazione domestica di terre rare pesanti e leggere, come neodimio e disprosio, input essenziali per la fabbricazione dei magneti permanenti.

Secondo le stime dello US Geological Survey, nel 2011 la Cina era responsabile del 90% dell’estrazione dei concentrati di terre rare, fino ad una riduzione significativa al 63% nel 2022. La ragione principale è l’ingresso di nuovi attori sul mercato, localizzati principalmente in Australia e negli Stati Uniti. Lynas Corporation e MP Materials sono gli unici due produttori fuori dalla Cina, seppur quest’ultima invii gran parte del suo output in Cina per ulteriore raffinazione. Altri paesi che hanno scalato le gerarchie sono Myanmar e Vietnam, quest’ultimo che ha visto una crescita di dieci volte della produzione nel 2022 rispetto all’anno precedente.

L’International Energy Agency (IEA) ha stimato che nel 2040 la domanda di terre rare potrebbe aumentare di tre o sette volte rispetto al 2020, a seconda della penetrazione di alcune tecnologie, come le turbine eoliche in cui sono impiegati i magneti permanenti (soprattutto per i parchi eolici offshore), e della forza delle politiche di decarbonizzazione del settore automotive, dal momento che la maggior parte dei veicoli elettrici (EV) utilizzano motori sincroni con l’impiego di magneti. In seguito alla COP28, più di 100 governi si sono impegnati per triplicare l’installazione di tecnologie rinnovabili per la generazione di energia entro il 2030, con l’obiettivo complesso di 11 TWh: un mix che dovrà necessariamente includere anche l’industria eolica.

In questo scenario, è dunque altamente probabile che il processo di diversificazione dell’offerta upstream di concentrati di terre rare continuerà, mentre è ben più chiaro che la domanda di terre rare continuerà ad essere trainata dalla Cina (che possiede il 92% della capacità di produzione globale di magneti). Una struttura di mercato che, di conseguenza, non può che perpetuare la forte presa della Cina nelle fasi midstream. Allo stato attuale, Pechino controlla tramite le sue industrie di Stato circa il 90% della separazione, raffinazione e metalizzazione delle terre rare, step cruciali per poter essere impiegate nella produzione di magneti insieme ad una lega di boro e ferro. E’ in questa fase, quella della trasformazione delle terre rare in metalli dai minerali da cui sono estratte, che si genera il maggior valore aggiunto se si escludono le fasi downstream.

Infatti, proprio per la loro rilevanza strategica – nonché applicazione in alcuni dispositivi militari – la Cina ha deciso, in risposta all’embargo americano sulle tecnologie per produrre chip avanzati, di includere una serie di macchinari e processi per la separazione delle terre rare e la produzione di magneti in una lista di prodotti vietati o che richiedono una licenza per l’esportazione.

Da un punto di vista commerciale, l’intento dello Stato con l’ultima fusione nell’industria delle terre rare cinese è quello di diminuire la concorrenza delle aziende più piccole basata sui prezzi, al fine di salvaguardare le risorse e il valore del patrimonio geologico nazionale, ma anche in vista delle politiche occidentali perché come visto i concorrenti globali (USA e UE) cercheranno di sviluppare il proprio eco-sistema industriale per perseguire un parziale (ma costoso) decoupling. La Commissione europea ha fissato l’obiettivo di produrre almeno 7.000 tonnellate annue di magneti entro il 2030 nel suo ultimo Action Plan ne 2021. In questa direzione, sono promettenti gli investimenti di Neo Perfomance Materials, azienda canadese che possiede un impianto si separazione in Estonia e punta a costruire un impianto di produzione di magneti. Gli USA hanno invece investito in alcuni produttori nazionali, con la spinta del Pentagono, e puntato a rafforzare la cooperazione industriale con il Giappone (secondo produttore globale, dietro la Cina per capacità ma custode, grazie ad Hitachi Metals, di una delle due licenze per la manifattura di magneti al neodimio altamente performanti).

In conclusione, nel breve-medio periodo il controllo della Cina sull’industria rimarrà ferreo e le ultime mosse di Pechino fanno intendere come il governo sia disposto a ricorrere a tutti gli strumenti a disposizione a tutela dei suoi asset strategici. Come aveva affermato il dirigente della Commissione di Supervisione e Amministrazione degli Asset di proprietà Statale (SASAC) – l’ente cinese che, nel dicembre del 2021, aveva approvato e supervisionato la creazione del China Rare Earth Group – l’obiettivo finale è quello di integrare le risorse a monte, aumentare il potere di determinazione dei prezzi e utilizzare le terre rare a vantaggio strategico del Paese.

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