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Putin, la miopia dell’Occidente si trascina da più di venti anni. Scrive De Tomaso

C’è chi racconta di una prima stagione “liberale” dell’autocrate russo. Ma i volumi della giornalista Anna Poliktovskaja dimostrano il contrario: la compressione delle libertà e la repressione del dissenso sono iniziate in coincidenza con l’investitura del nuovo zar. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Non c’è veleno, uccisione o Gulag che tenga. Anche dopo l’eliminazione fisica di Alexei Navalny, le quinte colonne mediatiche di Vladimir Putin impegnate sul fronte occidentale non depongono le armi della propaganda.

Certo, molti seguaci dello Zar non riescono a nascondere il proprio imbarazzo di fronte alla terribile sorte riservata all’ultimo dissidente russo di fama mondiale, ma presto si riprendono o passano al contrattacco argomentando che, tutto sommato, caso Ucraina e caso Navalny vanno messi sul conto dell’Occidente perché, secondo loro, nei lustri passati, Europa e Usa hanno sistematicamente sabotato l’avvicinamento di Mosca alle democrazie liberali, il che giustifica la reazione putiniana, corroborata dalla paura dell’accerchiamento provata dalla nazione più estesa del pianeta. In quale occasione l’Occidente avrebbe respinto le avance di cooperazione da parte di Mosca, non è dato sapere.

Né è dato sapere quando si sarebbe manifestata una spia pur minima disponibilità di Putin a integrarsi con l’Europa di Bruxelles, Berlino, Madrid, Parigi e Roma. Gira e rigira, si finisce sempre per risalire allo spirito di Pratica di Mare (maggio 2002), vicino Roma, immortalato nella stretta di mano, pronubo Silvio Berlusconi (1936-2023), tra l’autocrate russo e l’allora presidente americano George Bush junior. Ma la Dichiarazione di intenti che suggellò quel summit tra i Grandi della Terra, un documento teso a rimarcare l’ineluttabilità della pace mondiale, la lotta comune al terrorismo, l’archiviazione definitiva della Guerra Fredda e la partnership tra Nato e Russia, non produsse gli effetti sperati. Anzi. E non per colpa dell’Occidente, semmai del suo presunto alleato in sala d’attesa, che non si lasciò sfuggire l’occasione di invadere la Cecenia e pure di minacciare chi, tra le repubbliche ex-sovietiche, sognava di affrancarsi dall’eredità zarista e staliniana.

Che Putin fosse Putin e non la versione maschile di Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) fu chiaro sin da sùbito, né c’era bisogno di aspettare l’attacco militare (2022) all’Ucraina per prenderne atto. Né c’era bisogno, anni prima, di assistere alle aggressioni annessionistiche contro la Georgia (2008) e la Crimea (2014), per immaginare quale sarebbe stato il filo conduttore della politica estera di Putin. Era tutto già scritto nel lessico di partenza del successore di Boris Eltsin (1931-2007) al Cremlino.

Era tutto già scritto nella subitanea compressione dei diritti civili e dei riti democratici introdotti all’indomani della stagione eltsiniana. Chi nutrisse ancora dubbi in proposito, farebbe bene a leggere o rileggere i libri di Anna Politkovskaja (1958-2006), altro simbolo della resistenza al dittatore russo. E la saggista-giornalista assassinata per il suo coraggio nel denunciare le turpitudini del regime soprattutto nella guerra in Cecenia non racconta l’ultimo Putin (cattivo), semmai il primo Putin (presunto buono), quello dell’esordio, quello che, a parere di numerosi analisti occidentali, se non era un nipotino del liberale Alexis de Tocqueville (1805-1959) poco ci mancava. Ma siccome, non solo in Italia, il vizio della memoria e della lettura non rientra tra le esercitazioni di massa e anche d’élite, ecco spiegato perché le drammatiche testimonianze firmate dalla Politkovskaja non fanno parte della conoscenza comune o, perlomeno, diffusa. Infatti. Le sue pagine non le cita e non le rievoca nessuno, o quasi.

Eppure nel suo libro La Russia di Putin (2003) è raccontato, detto e predetto già tutto. L’autrice ricorda come Putin sia rimasto il tenente colonnello del Kgb, come l’esercito russo sia identico a una prigione, come il nonnismo in caserma provochi 500 morti l’anno per percosse, come non esista alcun controllo sul potere da parte della società civile post-sovietica, come il lavaggio del cervello svuoti le teste della popolazione, come le tasse pagate dai cittadini vadano tutte alla guerra e come per il Potere gli stessi soldati non siano uomini, ma ingranaggi, schiavi senza diritti. La Politkovskaja, testuale: “Putin? Se è un essere umano, non lo dà certo a vedere”. Già agli inizi della sua presidenza, Putin decide di vendere armi in tutto il mondo, assoggetta il sistema giudiziario, attiva i processi senza prove per gli imputati da condannare (“Per stilare le perizie legali non sono i fatti che contano, ma chi li manipola”), chiude un occhio sulle frodi dei luogotenenti periferici, si fa beffe della Costituzione in vigore.

Ma l’Occidente, si dispera la scrittrice, è imbambolato, anzi si lascia sedurre dall’Uomo Forte: “Gli occidentali hanno una tale passione per Putin, lo amano a tal punto da temere di pronunciarsi contro di lui”. Né vuole riconoscere, sempre il miope Occidente, che, specie in Russia, la storia è recidivante, come il cancro, vedi il controllo para-sovietico su ogni angolo del Paese. L’impunità dei potenti è legge, i pubblici ministeri sono riusciti a legalizzare il primato della vendetta sul diritto, i giudici spesso agiscono come gangster in lotta tra loro, quelli onesti patiscono mille angherie, l’ordinamento giudiziario è totalmente asservito allo zar. La coraggiosa reporter non si stanca, con le sue inchieste e le sue analisi, di suonare la sveglia a un’opinione pubblica interna passiva e a governanti esterni riluttanti a reagire. Si chiede e si richiede come fanno, quest’ultimi, a non vedere quello che succede ad est, dove dilagano cleptocrazia e mafiocrazia, in barba ad ogni elementare principio di stato di diritto. Né – lei ne soffre – desta apprensione e timore in Occidente la formula di “democrazia guidata” (la legge del più forte) che il Cremlino brevetta per giustificare gli atti repressivi da parte del sistema. L’ideologia putiniana è un concentrato di retorica sovietica e logica stalinista. La verità non esiste. La bugia impera.

“Nel migliore dei casi – scrive la povera Anna – il potere è fonte di guai”. Se, secondo Anna, i russi sono responsabili per apatia, invece gli occidentali sono responsabili per negligenza, per voglia di non sapere, e per molto altro ancora, dello strapotere putiniano. Un atteggiamento, il nostro, che perdura tuttora e che tenta di aggrapparsi, quando si trova con le spalle al muro davanti alla crudeltà dei fatti, alla storia del (presunto) Putin-uno buono costretto a evolvere nel Putin-due cattivo. Sappiamo che così non è e che c’era qualcuno che lo aveva documentato più di venti anni addietro, già al debutto del nuovo zar sulla scena mondiale.

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