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Davvero centro è uguale a inciucio? Follini sul Meloni-pensiero

Centro uguale inciucio. In un’intervista a Libero Giorgia Meloni, la leader di FdI che si candida a guidare il Paese, fa sua una bizzarra equazione. Senza capire che una vera politica di centro è l’esatto opposto. Il commento di Marco Follini

Premessa. Se il centro non è più il cuore della politica italiana la responsabilità è di noi centristi. Vale a poco lamentarsi di un destino cinico e baro a cui abbiamo concorso noi per primi. E valgono a poco anche certe nostre prediche con il ditino alzato con le quali pretendiamo di insegnare agli altri, le destre e le sinistre, come stare degnamente al mondo.

E tuttavia stupisce (e indigna) l’equazione che oggi ha voluto tracciare Giorgia Meloni, secondo cui il centro è l’”inciucio”. Stupisce (e indigna) perché accarezza per il verso del pelo gli argomenti e i modi di dire più demagogici. Perché pretende di ridurre la politica a uno scontro campale. Perché disconosce un tratto fondamentale della storia della democrazia italiana. Perché rivela un’ansia di incasellare le forze in campo in una dicotomia che non corrisponde ai sentimenti che corrono nel Paese. Perché sembra scommettere tutto sulla radicalizzazione dei conflitti.

A parte l’uso e l’abuso della parola “inciucio”, che ogni dirigente pensoso della qualità dello scontro pubblico e del valore del linguaggio dovrebbe avere il buon gusto di cancellare dal proprio vocabolario, resta il fatto che in ogni democrazia ben funzionante sono sempre all’opera forze intermedie, posizioni meno assertive, certezze corroborate da qualche dubbio, pensieri non troppo faziosi e militanti. E cioè tutta quella complessità che è tipica di un paese in cui non si sia perso il gusto del ragionamento, della sfumatura, diciamo pure della mediazione.

A suo tempo sono stati i centristi a ricostruire il Paese dopo la guerra. E lo hanno fatto perché hanno saputo offrire un riparo politico a quella larga parte di italiani che non voleva più le contrapposizioni frontali, e che aveva imparato a proprie spese di quali rischi grondasse la radicalizzazione politica che aveva segnato la prima metà del Novecento.

Non si trattava allora, schematicamente, di schierarsi a metà campo come una forza di interposizione. Ma di capire che una società complicata e sfaccettata (tale è, sempre, la democrazia) aveva bisogno di rispecchiarsi in una politica che fosse capace di attutire qualche spigolo e di evitare le troppe collisioni a cui la faziosità di parte, anche la più appassionata, poteva condurre.

La democrazia italiana fu instaurata non per caso sotto bandiere centriste. Non era il desiderio pavido di non schierarsi, tutt’altro. Era l’idea che la politica non andasse ridotta troppo nel perimetro angusto dei suoi schematismi. E che la grandezza di una leadership si dovesse misurare – senza comode demonizzazioni – sul metro delle compatibilità, delle condivisioni, delle idee che all’occorrenza si potevano mettere in comune.

Il miracolo economico, pur con tutti i suoi difetti, fu reso possibile per l’appunto da una classe dirigente centrista che seppe fare i conti fino in fondo con tutto il paese. Anche con quella parte che aveva idee diverse, e che tuttavia incrociò l’attenzione, il rispetto e il senso della misura dei suoi stessi avversari.

Insomma, il centro di quegli anni fu il contrario di quello che si dice oggi l’”inciucio”. Ammesso che quella parola sia un argomento e non solo un insultante e stucchevole ritornello.



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