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Tutto quello che c’è da sapere su Ilva e che la politica non dice

ilva, tempa rossa

La domanda è sempre quella. E adesso? Sull’Ilva c’è una grande nuvola grigia carica di incognite. Una su tutte, che ne sarà dell’acciaieria più grande d’Europa una volta che il successore di Paolo Gentiloni (Giuseppe Conte?), avrà varcato la soglia di Palazzo Chigi?

Partiamo dai fatti e cioè da quel contratto appena sottoscritto che porta in seno la chiusura dello stabilimento pugliese (qui l’approfondimento di Formiche.net). Il Movimento Cinque Stelle, con più di un dubbio della Lega, vuole la graduale dismissione di Taranto per far posto a una non meglio specificata “riconversione” dell’impianto. E qui arriva il primo punto interrogativo. Per farne cosa? Un parco solare? Una centrale? Non si sa. Concetto ribadito proprio questa mattina da Lorenzo Fioramonti, consulente economico di Luigi Di Maio. “In questo momento ci muoviamo in una direzione chiara, cioè chiusura programmata e riconversione economica dell’Ilva”. Queste le intenzioni politiche.

Ma i fatti raccontano anche un’altra realtà e cioè che c’è un unico investitore, Arcelor Mittal, che ha messo sul piatto 2,4 miliardi di euro per accollarsi l’Ilva, i suoi debiti e il suo risanamento ambientale. Il gruppo franco-indiano ha vinto la gara europea un anno fa e ha avuto il 7 maggio scorso il via libera della stessa Ue. Ma soprattutto si appresta a diventare a tutti gli effetti (il termine è il 30 giugno) proprietario dell’Ilva. E allora viene da domandarsi se annunciare la chiusura di Taranto sia davvero una buona idea: il governo giallo-verde dovrebbe aprire una trattativa con Mittal, che da parte sua potrebbe benissimo chiedere indietro allo Stato i soldi investiti su Taranto, costringendo così il governo a tirare fuori altri denari a titolo di risarcimento. Senza contare l’immagine che ne deriverebbe per l’Italia, vista come un Paese dove prima si attirano investitori e poi si blocca tutto non appena cambia compagine governativa.

E poi, ammesso che vada in porto la riconversione immaginata nel contratto Lega-5 Stelle, chi la finanzierebbe? Mittal non di certo visto che si occupa di acciaio e non accetterebbe un piano alternativo al suo. E tirare dentro la Cassa Depositi e Prestiti vorrebbe dire spendere altri soldi pubblici quando invece, per rilanciare l’impianto, magari rispettando le prescrizioni ambientali, poteva metterceli un privato.

Altro fatto di cui il nuovo esecutivo dovrà necessariamente tenere conto, i sindacati. Già indispettiti dalla rottura improvvisa della trattativa con il ministro dello Sviluppo economico uscente, Carlo Calenda. Arcelo infatti non intende assumere più di 10mila addetti mentre tutti i dipendenti di Ilva sono poco meno di 14mila. Il ministro Carlo Calenda aveva provato a tracciare una via d’uscita: 10mila a Mittal, 1200 una società mista Ilva-Invitalia, il resto coperti da cassa integrazione straordinaria e bonus per l’esodo volontario e incentivato. Ma i sindacati, Usb e Fiom Cgil in testa, cui si è poi unita anche la Uilm mentre la Fim Cisl avrebbe voluto trattare ancora, questa proposta l’hanno respinta, consumando la rottura.

Ma peggio del no alla proposta di Mittal c’è proprio quella “riconversione” di cui i 5 Stelle parlano. Gli stessi sindacati non vogliono la chiusura di Taranto, perché non ritengono che la riconversione possa tutelare tutti i posti di lavoro tra Ilva e indotto (15mila solo a Taranto), e rilanciano sulla proposta che tiene insieme risanamento ambientale, salvaguardia dei posti di lavoro e rilancio produttivo. Perché poi alla fine, tutto riporta alla questione dei lavoratori. Con l’indotto i lavoratori che rimarrebbero a casa sarebbero 20mila. Praticamente il 10% della popolazione tarantina.

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