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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Sergio Soave apparsa sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

L’allarme lanciato da Enrico Letta sul pericolo di un successo travolgente dei «populisti» nelle elezioni europee di primavera, prospettiva che propone di combattere con lo slogan ormai piuttosto abusato dell’Europa «dei popoli», ha un evidente significato di autotutela del suo governo gradito più alle cancellerie europee (cioè a quella tedesca) mentre non contiene un messaggio altrettanto consistente sulla difesa dell’indipendenza, cioè dell’interdipendenza non troppo asimmetrica, dell’Italia all’interno di questo sistema.

Come hanno recentemente dimostrato fonti americane, l’Italia come molti altri Paesi europei, è vittima dell’egoismo tedesco, che ha perseguito un surplus dell’export superiore a quello consentito dai trattati europei provocando recessione nell’economia dei partner, costringendoli poi a una ferrea austerità che autoalimenta la spirale recessiva.

L’America protesta, naturalmente, «pro domo sua», non per solidarietà verso i Paesi mediterranei. La stagnazione di una parte consistente dell’Europa consente alla Germania di contrastare la svalutazione del dollaro, che è indispensabile all’America per scaricare il peso del suo colossale debito, che è detenuto per metà dalle banche asiatiche, soprattutto cinesi e giapponesi.

Molti sospettano che anche la tensione sul presunto default sia stata solo una sceneggiata per drammatizzare la situazione interna in modo da far digerire la svalutazione che è obiettivo comune, ma difficile da realizzare, di democratici e repubblicani. Quale che sia la motivazione, c’è un attacco americano all’egemonismo dell’austerità tedesca in Europa, e non si capisce perché i popoli europei invece dovrebbero continuare ad accettarlo per paura dei «populismi».

Letta è un allievo di Nino Andreatta, che sosteneva che solo stringenti vincoli esterni avrebbero imposto all’Italia la disciplina economica che la sua classe dirigente, non solo politica, non è in grado di perseguire. Probabilmente aveva ragione trent’anni fa, ora l’ottica dovrebbe essere diversa, rivolta a definire una disciplina che non penalizzi ogni possibilità di crescita.

La rivolta contro questa forma di subalternità diventa vacua se non ha una sponda politica, e, una volta tramontata quella rappresentata da Silvio Berlusconi travolto dall’alleanza Merkel-Sarkozy, deve trovarla all’esterno, probabilmente nell’alleanza con l’America.

Matteo Renzi, almeno nell’impostazione che aveva dato alla sua sfortunata campagna contro Pierluigi Bersani, sembrava l’uomo adatto per rinsaldare le relazioni con l’America per sfuggire alla stretta tedesca. Poi per ottenere consensi ha cambiato tante posizioni, c’è da sperare che mantenga però ferma quella essenziale.

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