Mentre le manifestazioni in piazza minacciano l’ordine pubblico, si esaspera uno dei maggiori conflitti interni della Spagna: quello dell’autonomia catalana. Questa volta sono i numeri, soprattutto in rosso, a fare salire la tensione tra il governo regionale della Catalogna e il governo centrale di Madrid. Con lo scontento esplicito dei cittadini, dimostrato nella manifestazione dello scorso 11 settembre, dove hanno partecipato un milione e mezzo di catalani hanno per l’autonomia della regione. A muoversi è anche il Parlamento, che ha ripescato un vecchio dibattito sulla validità di un decreto del 1714 che faceva riferimento alla sovranità catalana dal 1715 in poi. Tutte le forze politiche, unanimemente, hanno votato contro.
Una possibile separazione della regione dall’unità nazionale sarebbe devastante per l’economia spagnola, secondo alcuni osservatori. La Catalogna è la più ricca delle autonomie, con un Pil di 200 miliardi di euro, quasi un quinto di quello della Spagna. Nonostante abbia una produzione equivalente a quella del Portogallo, la regione deve dare la maggiore parte delle risorse che produce allo Stato centrale perché non gode di una gestione finanziaria autonoma. A differenza dei Paesi Baschi e Navarra. E deve anche contenere il deficit entro l’1,5% del Pil e cavarsela con un debito di 44 miliardi di euro. Una situazione che per i catalani non è più conveniente.
Ma la regione è in bolletta e una soluzione va trovata in fretta. Il governatore della Catalogna, Artur Mas, ha lasciato da parte l’orgoglio, i discorsi di sovranità e autodeterminazione che incentivavano alla lotta per uno Stato indipendente, e a fine agosto ha ammesso che per uscire dalla crisi la regione ha bisogno dell’aiuto dei fondi dello Stato: 5 miliardi di euro. Il governo ha detto che per adesso saranno concessi solo 471 milioni ed è cominciato il dibattito sulla destinazione di queste risorse.
Per Jorge Verstrynge Rojas, fondatore del Psoe in Spagna e professore di Scienze politiche all’Università Complutense di Madrid, bisogna mettersi al posto dei catalani per capire la situazione dell’autonomia regionale. In conversazione con Formiche.net, l’analista sostiene che loro sanno di contribuire nel 20-25% del Pil della Spagna e sono convinti che non avrebbero problemi di finanziari se non fosse per il sostegno che devono dare a Madrid. “Si sentono costretti a contribuire alla soluzione di una crisi che non ha prospettive di soluzione. Rajoy presenterà un pacchetto economico che sarà l’ennesimo stretta di cinghia, ma non porterà da nessuna parte perché il debito spagnolo non si può ripagare. Abbiamo un debito con qualcuno che non ci mette in condizione per potere pagare il debito. Non c’è forma di riattivare l’economia e senza la crescita aumenta la disoccupazione e ricomincia il circolo”, spiega Verstrynge Rojas.
Un referendum per la secessione?
Il prossimo 25 novembre molto probabilmente ci sarà un referendum popolare in Catalogna, senza valore costituzionale, per misurare l’opinione dei cittadini sulla voglia di sovranità. Secondo il politologo, da quello dipende il futuro dell’autonomia. Aggiunge Verstrynge Rojas: “Anche se il referendum non ha nessun valore legale, non possiamo che lasciarli la loro libertà se i catalani dicono di volersi separare nel resultato del referendum. Non possiamo costringerli a restare nell’unità nazionale con i carri armati e la repressione. Ma la separazione della Spagna comporterà sicuramene anche il distacco dall’Europa e dall’euro”.
La portavoce della coalizione Unión, Progreso y Democracia, Rosa Díez, ha avvertito che questi soldi potrebbero servire al Govern de la Generalitat per finanziare la secessione. In conferenza stampa al Parlamento, e come ha riportato il quotidiano Europa Press, Diéz ha spiegato che quel tipo d’autonomia che insegue la Catalogna “è un diritto internazionale che si applica ai popoli invasi e l’ultima volta è stata concessa a Timor Orientale. Vogliono i catalani essere come Timor Orientale? Il presidente Mas ha il dovere di rispettare la legge e farla rispettare e il governo spagnolo deve impedire quel referendum”, ha dichiarato Díez.
Il problema di fondo è proprio questo: la frontiera che divide l’aspirazione all’autogestione fiscale e la secessione, ovvero, lo stacco dall’unità nazionale, è molto sottile in una regione che va fiera della propria storia, cultura e persino la propria lingua. E che avrebbe i numeri per mantenersi, senza l’acqua al collo, come adesso che è collegata allo Stato. In un analisi di Luca Veronese pubblicato dal Sole 24Ore si spiega il funzionamento delle regioni in Spagna: “Le regioni controllano oltre un terzo della spesa pubblica complessiva e hanno la responsabilità totale sui servizi sanitari e la scuola. Hanno una limitata capacità impositiva e vivono in gran parte dei trasferimenti statali”. E viene ripreso il peso economico della Catalogna in parole del presidente Mas: “Se fossimo uno Stato indipendente, saremmo tra i primi cinque esportatori al mondo”.
Bisogna chiedersi se questo desiderio di distacco, a favore della sopravvivenza economica e la propria identità, avrebbe delle repliche nel resto dell’Europa. E basta guardarci intorno, non molto lontano: la Lombardia, ad esempio, è la regione che per tradizione ha la crescita e il contributo più alto al prodotto interno lordo italiano.