Venezuela saudita. Dagli anni Settanta, quando è stato nazionalizzato il petrolio, il Paese sudamericano è diventato una copia caraibica dell’Arabia Saudita. È scomparsa l’industria nazionale e lo Stato è passato ad essere la fonte redditizia di tutto. Un’economia mono produttiva con malformazioni e vizi che costavano caro, troppo.
Quando Hugo Chávez vinse le elezioni a dicembre del 1998, circa il 50% della popolazione viveva in condizioni di povertà. L’ex militare, protagonista di due colpi di Stato contro il governo democratico di Carlos Andrés Perez, si era presentato alle elezioni promettendo di cambiare quella drammatica situazione. Vinse all’epoca con più del 60% dei voti. Oggi, quattordici anni dopo, l’indice di povertà estrema si è ridotto ma il 70% della popolazione vive in condizioni di precarietà, ovvero ha più potere di acquisto grazie ai sussidi sociali ma non ha lavoro e dipende dallo Stato. Al punto che da 14 ministeri che c’erano nel 1998, Chávez è dovuto arrivare a 29 per così creare più posti di lavoro.
Ma come fa il Venezuela a essere uno dei Paesi più poveri al mondo se il prezzo del greggio è alle stelle? Da quando Chávez è al potere la produzione ed esportazione del petrolio è diminuita. Secondo l’ Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) nel 1998 il Venezuela produceva 3,5 milioni di barili al giorno e nel 2011 solo 2,4. Paradossalmente, la nomina di impiegati dell’impresa petrolifera dello Stato, Pdvsa, è aumentata da 32.000 lavoratori nel 1998 a 105.000 nel 2011. Il barile di petrolio non fa altro che aumentare e questo ha aumentato esponenzialmente la rendita. Nel 2008 un barile è arrivato a costare 124 euro.
Come hanno spiegato i giornalisti venezuelani Luis Prado e Maye Primera in un’editoriale di prima pagina su El País, nei 14 anni di governo del presidente Chávez gli incassi per la vendita del petrolio sono aumentate sette volte, la nomina degli impiegati pubblici si è duplicata e la spesa pubblica dipende totalmente dell’esportazione del greggio.
Il problema è che non c’è stato nessun investimento al di fuori del cosiddetto “oro nero”, anzi: l’industria privata si è dimezzata, la metà della forza lavorativa è nel settore informale e due terzi di quello che si consuma nel Paese, dal dentifricio fino al latte, è importato. Passando per la benzina (sì, la benzina, un derivato del petrolio!). Il risultato? L’indice d’inflazione più alto dell’America latina: 27,9% nel 2011.
La mancata sicurezza giuridica, le politiche di nazionalizzazioni, il controllo del cambio e la riduzione del 40% della capacità energetica (sì, energetica!) hanno spaventato gran parte degli investimenti. Nel 1998 c’erano 11.000 aziende e adesso sopravvivono soltanto 7.000. Di queste, 1.163 compagnie sono state espropriate dallo Stato, circa 90% senza indennizzo. È con questi risultati di 14 anni di gestione che Chávez si gioca la rielezione il prossimo 7 ottobre. In una Venezuela saudita sempre più povera.