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Machiavelli, usi ed abusi di un principe della politica

Potere, egemonia, sovranità. La radice realistica della politica. La democrazia e il dovere della responsabilità politica. Il politico come categoria autonoma, sospesa sull’abisso schmittiano della decisione. Il giacobinismo come mito politico moderno e repubblicano impugnato da forze storiche in grado di “farsi Stato”. Molti spunti che dicono dell’attualità di Niccolò Machiavelli nella cultura politica europea attraversata da profonde trasformazioni
Questi ed altri temi sono al centro della sezione politica del numero di dicembre di Formiche, dove parliamo del Segretario fiorentino, della sua (in)attualità e in particolare della sua opera capitale, croce e delizia di politologi e leader politici: Il Principe, che l’anno prossimo compie cinquecento anni (1513). Vi proponiamo un’intervista inedita al filosofo Gennaro Sasso, direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, che sul Segretario ha scritto un’insuperata monografia nel lontano 1963.

Il Principe fu percepito subito come un’opera rivoluzionaria? E il suo autore come fu percepito?

In vita dell’autore il Principe non fu stampato, anche se circolava come manoscritto. Indubbiamente vi furono lettori dell’opera mentre Machiavelli prima del 1527 (anno della sua morte), ma non sappiamo come lo accolsero. Certamente non deve essere stato un libro di facile collocazione nell’orizzonte mentale del tempo. D’altra parte forse il lettore più notevole e consapevole della novità del Machiavelli – non solo del “Principe” ma anche dei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” – è stato Francesco Guicciardini, il quale tuttavia, per la sua statura intellettuale, non può essere considerato rappresentativo dell’opinione media. Si sa per esempio che, almeno formalmente, certi ambienti ecclesiastici si mostrarono scandalizzati dal Principe. Tuttavia vorrei sottolineare un mistero che circonda la vita e la formazione intellettuale del Machiavelli prima del suo ingresso alla seconda Cancelleria. Si badi, le edizioni della sua opera non mancano (a breve il Vittoriano ne ospiterà una quelle del Principe), ma mentre questa viene letta, utilizzata e spesso fraintesa da cinque secoli, del suo autore si sa sempre meno. In certa letteratura seicentesca Machiavelli veniva addirittura presentato come segretario dei Medici! Mi sono convinto che la rappresentazione della vita di Machiavelli di un uomo che “nasce” a 30 anni, quando entra in Cancelleria come segretario (quindi in una posizione subito molto elevata) sia del tutto insufficiente. Nel 1512 viene mandato in una sorta di confino a San Casciano, lontano dalle biblioteche, eppure in un anno dà mano ai Discorsi e scrive Il Principe, nel cui capitolo XIX abbondano i riferimenti a storici che parlano del Basso Impero. C’è da chiedersi dove abbia potuto leggerli. E forse la risposta è che Machiavelli aveva una fisonomia politica completa e che fosse entrato in Cancelleria con un bagaglio culturale notevole e contatti con ambienti intellettuali, di cui purtroppo ci mancano attestazioni documentali.

In che relazione Machiavelli si pone con la dottrina politica a lui precedente?

Machiavelli sorge dalla stessa tradizione che infrange. Il legame con il passato è garantito dal fatto che se ne distacchi. Machiavelli dunque non è una meteora. Egli aderisce in parte al contesto in cui opera, criticandone alcuni aspetti. Emblematici i capitoli centrali del Principe, dove prende una posizione forte contro coloro che si “immaginorno” repubbliche mai esistite nella realtà effettuale. Anche nei Discorsi parla del suo procedere per “strade mai peste da altri”. Si badi tuttavia che il Principe non è, nel suo impianto letterario, un’opera rivoluzionaria – non come, per esempio, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio – perché riprende una tradizione di trattati sui principati, a partire dalla scelta del latino per il titolo. Naturalmente altro è l’impatto etico-politico dell’opera, dovuto alla sua crudezza e alla rappresentazione dell’aspetto quasi ferino della politica.

La cura delle armi, una priorità nell’opera del Segretario fiorentino, non lo è stata certo per le classi dirigenti italiane, almeno nel confronto con quelle d’Oltralpe. Condivide questa impressione?

È certamente vero. La spiegazione è che vi era una forte frammentazione territoriale tra Stati. Il problema delle “armi proprie” è un grande problema politico. È per questo che Machiavelli appare piuttosto isolato nella sua richiesta di costituire milizie cittadine. Nel suo tempo infatti il reclutamento avveniva nelle campagne, nel contado, che erano in un rapporto di sudditanza rispetto alla città. L’opposizione alle milizie cittadine esprimeva dunque, anche in Guicciardini, il timore questo rapporto si potesse rovesciare creando le condizioni per un colpo di Stato militare. Nel Risorgimento poi è stata fatta una rivendicazione dell’importanza delle “armi proprie”, secondo una visione però di un momento storico particolare.

Si può definire Machiavelli un capostipite del realismo o addirittura del materialismo? 

Si parla di primato della politica, ma in Machiavelli questo è quasi un eufemismo: la politica non ha competitori, nel senso che tutto le è subordinato. La religione è importante come strumento politico, ma non appena si muove secondo linee autonome cade sotto la sua censura. Nemmeno l’etica può essere considerata in competizione con la politica, perché va superata ogni volta che è necessario: la resistenza che offre attiene dunque alla sfera privata della coscienza e non a quella pubblica. Dal punto di vista dell’obiettività dell’agire politico, un uomo che mettesse in primo piano il rispetto di norme etiche a svantaggio di necessità politiche sarebbe semplicemente uno che sceglie la propria rovina. Parlerei dunque di assolutezza della politica, di solitudine della politica.

Diverso è il discorso sul materialismo. Machiavelli non si occupa di strutture economiche e sociali o di modi di produzione, tranne quando affronta da storico quei movimenti che dal basso cercano di salire e acquistare potere e sostanze. Nel III libro delle “Istorie fiorentine” la narrazione della vicenda dei Ciompi mostra una grande sensibilità verso questo tema. È vero che la considerazione realistica della forza e del conflitto lo accomuna a Marx, che di Machiavelli era un estimatore, ma questa è un’affinità abbastanza generica, che non autorizza a stabilire paralleli, anche per la forte differenza di interessi filosofici dei due.

Ci sono aspetti della sua ricerca filosofica sui concetti di tempo ed evento che attengono anche al sostrato filosofico di Machiavelli?

È una domanda difficile e forse altri meglio di me potrebbero rispondere. Posso certamente dire che nel mio saggio “La morte il logo” (Bibliopolis, 2010) affermo che il mondo doxastico, quello delle verità non ultime, è un mondo machiavellico e politico, ovvero di eventi puri.

Il Cinquecentenario del Principe cade in un periodo in cui si parla molto di crisi della politica e dei suoi concetti fondanti (Stato, egemonia). Cosa può dirci Machiavelli oggi?

La mia impressione è che leggendo l’opera di capitolo in capitolo e cercando di vedere come Machiavelli immagina il “dover essere” del Principe, ci si rende conto poco alla volta che quello che si chiede in queste pagine all’uomo politico è moltissimo. “Il principe non deve sbagliare mai” sembra la massima apparentemente banale che guida lo scritto: ma la posta in gioco in realtà è altissima, perché ogni errore apre un abisso. Quello tra Principe e Fortuna è un rapporto antagonistico, un dramma, anzi una tragedia, che richiede qualità eroiche e grandiose al suo attore umano: l’essere pari, se non addirittura superiore, al suo terribile interlocutore, la Fortuna, impersonale forza di morte e distruzione.

Tradotto in termini di politica democratica del secolo XXI si può dire che Machiavelli pretenderebbe dagli uomini politici che fossero completamente diversi da come sono oggi, non solo in Italia, ma anche in Europa. A loro chiede una maturità e un dominio assolutamente eccezionali. Nell’ambito della sua esperienza della politica Machiavelli ha capito che questo è il regno più drammatico dell’esperienza umana, quello in cui si corre in ogni momento il rischio di essere travolti. Se ci si abbandona alle lusinghe del potere, trasformando in personale vantaggio la potenza della politica, si passa dalla tragedia alla farsa. I travisamenti di questo messaggio non mi sorprendono: basti pensare che ancora nel XX secolo persone illuminate  hanno definito Il Principe un libro “delinquenziale”. Se poi un politico lo legge come un manuale per ingannare il prossimo, beh, allora non ha capito proprio niente.


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