Articolo pubblicato sul Foglio il 13 dicembre del 2012
Giuseppe Guarino, anche attraverso l’intervista al Foglio di martedì scorso, ha presentato una serrata analisi giuridica dei modi in cui l’economia dell’Ue è stata sia forgiata, partendo dal Trattato di Maastricht e giungendo al Fiscal compact, sia gestita. Egli giunge a una duplice conclusione: l’oggetto del Trattato – promuovere “un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile” – è stato disatteso e le procedure che sono seguite sono illegittime e, quindi, le decisioni nulle. Saranno i giuristi a dire se l’analisi è fondata o meno ma, se lo fosse – la qual cosa per un giurista come Guarino è probabile – occorre aprire un tavolo di trattative per rinegoziare i termini della nostra (e altrui) permanenza nell’Unione. Come accade di consueto per qualsiasi critica riguardante i contenuti e l’applicazione degli accordi europei, i seguaci dell’appartenenza “a qualsiasi costo” all’Europa bolleranno l’analisi come antieuropeista e l’accantoneranno, ma questa opzione non è aperta alle istituzioni dello stato italiano e dell’Ue che dovranno affrontarne le implicazioni.
Gli economisti hanno il compito di pronunciarsi se vi sia stato il mancato adempimento dell’oggetto indicato all’articolo B del Trattato di Maastricht del 1992. Anche se da allora sono subentrate molte novità geoeconomiche e geopolitiche che complicano l’adempimento degli impegni collegialmente presi, il Trattato di Lisbona del 2007 ribadisce, anzi rafforza, i contenuti degli obiettivi di “piena occupazione e progresso sociale” dichiarando che l’Ue “combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale (…) e la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri”. Esso non sente la necessità di adattare alla nuova realtà i contenuti del documento tecnico di accompagnamento voluto da Jacques Delors, un padre dell’Unione, intitolato “Il costo della non Europa”, il quale sostiene che “il mercato comune – di per sé – porterà a una crescita del pil reale del 4,5 per cento, una caduta dei prezzi del 6 per cento e due milioni di nuovi posti di lavoro”, nonostante dalla firma del Trattato fosse già emerso quale fosse l’intento originario dell’Unione: il progresso sociale sarebbe stato subordinato alla stabilità e questa avrebbe fatto premio sullo sviluppo. In un recente articolo su Affari & Finanza di Repubblica, Marcello de Cecco avanza una lucida analisi sulla fallacia di tale supposizione che la teoria non è in condizione di dimostrare e la pratica si è data carico di smentire.
Dopo vent’anni di sperimentazione della logica della stabilità come presupposto della crescita e l’insistenza con cui si invocano le riforme, che si traducono in maggiori tasse e minore protezione sociale, si può ratificare l’interpretazione di Guarino che gli obiettivi sono stati disattesi e che l’Europa necessita di un nuovo più serio accordo. L’assetto biogiuridico creato per la moneta e, ora, anche per il fisco, divergono dagli obiettivi economici che l’Unione si era prefissa di raggiungere, creando una pericolosa spaccatura in Europa sul piano economico, la quale si diffonderà alla politica e al sociale. E sia ben chiaro: la colpa non sarà del popolo, ma dei governanti che tale assetto hanno voluto, confondendo a esso le idee o nascondendo la verità.
Le prime reazioni all’analisi di Guarino sono state che gli obiettivi sono il risultato di scelte politiche e possono essere quindi disattese dalla realtà; non hanno valore legale. Altri, più incauti, sostengono che “pareggio di bilancio” non significa azzeramento del saldo tra entrate e uscite pubbliche. Queste interpretazioni appaiono come una continuazione in altre forme degli errori commessi dall’Ue per convincere i cittadini europei ad aderire agli accordi. È un procedere pericolosissimo perché toglie forza e validità al rispetto dei trattati internazionali, che restano l’unico fondamento della convivenza civile nel pianeta.
Chi tiene in gabbia l’Unione? di Marco Andrea Ciaccia e Flavia Giacobbe