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Armi e calcoli sbagliati nell’Asia orientale. Combinazione pericolosa

La copertina di un numero dell’Economist dello scorso settembre metteva bene in chiaro il punto sulla questione delle Senkaku, secondo la definizione nipponica o Diaoyu come le isole sono chiamate dai cinesi. “C’è veramente il rischio che Cina e Giappone vadano in guerra per questo?” si chiedeva il settimanale che metteva in prima l’immagine delle isolette contese tra i due Paesi, poco più di un arcipelago di scogli sebbene con fondali ricchi di materie prime e in posizione strategica per il controllo delle rotte. “Temo di sì”, rispondeva una tartaruga che affiorava dall’acqua.

Del rischio di uno scontro tra la seconda e la terza potenza economica mondiale, che tirerebbe in ballo anche la prima, ossia gli Stati Uniti, scrive anche Hugh White sul Sydney Morning Herald.

“Un’ improvvisa escalation di una questione apparentemente senza importanza: questo è il modo nel quale iniziano le guerre. Quindi, non vi sorprendete se l’ anno prossimo gli USA e il Giappone combatteranno una guerra con la Cina per delle rocce disabitate”, inizia il suo pezzo il professore dell’Australian National University citato da Benimino Natale, corrispondente Ansa da Pechino, sul suo blog.

Se conflitto ci sarà non è detto che sia di breve durata, aggiunge White che spiega: a Washington c’è chi pensa che la Cina abbia bisogno degli Usa, perciò Pechino non farà mosse azzardate. A Pechino si pensa l’esatto contrario e questi fraintendimenti potrebbero avere come conseguenza lo scoppio di un conflitto provocato dai calcoli sbagliati delle parti in causa. Serve una qualche strategia diplomatica creativa per uscire dallo stallo che sembra aggravarsi per l’elezione dei liberaldemocratici alla guida del Giappone, alleato Usa che dopo la parentesi del triennio democratico ha svoltato nuovamente a destra. Tuttavia, nelle scorse settimane alcuni commentatori hanno notato come nella diatriba Pechino possa preferire un esecutivo nipponico di centrodestra perché più avvezzo a trattare sulle questioni internazionali per l’esperienza maturata in decenni al governo.

Intanto la Reuters dà conto del ruolo della vendita di armamenti agli alleati nella strategia statunitense verso l’Asia. “Ci saranno maggiori opportunità per le nostre società”, ha detto all’agenzia britannica Fred Downey vicepresidente per la sicurezza nazionale alla Aerospace Industries Association, che riunisce anche alcuni dei maggiori produttori di armamenti statunitensi.

Gli accordi di vendita stipulati con i Paesi della regione dello Us Pacific Command hanno toccato nel 2012 i 13,7 miliardi di dollari, pari al 5,4 per cento in più rispetto all’anno precedente. E i risultati elettorali in Giappone e Corea del Sud, con la vittoria dei conservatori in entrambi i Paesi,potrebbero far lievitare le vendite.

Lo scorso dicembre, per fare un esempio, è stato proposto un accordo di 1,2 miliardi di dollari per la vendita ai sudcoreani del drone spia RQ-4 Global Hawk su cui Seul ha puntato gli occhi da almeno quattro anni e di cui diventerebbe il primo acquirente nella regione. Il Giappone punta invece su sistemi antimissile per proteggersi dal rischio di attacchi nordcoreani alla luce anche del lancio di un razzo a lunga gittata e del posizionamento in orbita di un satellite riuscito al regime dei Kim appena poche settimane fa.

Tokyo guarda inoltre con interesse agli F-35, così come Seul e Singapore. E questo senza contare la corsa al riarmo nel Sudest Asiatico, dove Pechino è impegnata in altre dispute territoriali e dove a fare la spesa di armamenti sono Filippine e Vietnam.

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