Sul Corriere della sera Andrea Ichino e Daniele Terlizzese si interrogano sulle ragioni per le quali anche se, in Italia, studiare all’università “conviene” rispetto a fermarsi al diploma si registra un calo del 17% delle immatricolazioni. La tesi prospettata è che l’università è “un investimento più rischioso” e che “se si è avversi al rischio, l’incertezza frena l’investimento”. E’ indubbio che studiare sia un investimento, ma mi sorprende che la questione venga trattata esclusivamente sotto il profilo economico e secondo un calcolo utilitaristico. Si studia anche per passione e per coltivarsi. Non oso immaginare medici che si siano laureati nella disciplina solo per convenienza. E mi chiedo: il giorno in cui l’università non dovesse più risultare vantaggiosa, avranno i nostri commentatori il coraggio di sconsigliare alle nuove generazioni lo studio? e perché non lo fanno per le discipline umanistiche, certamente meno profittevoli rispetto a quelle scienze applicate? negli articoli sulla vita di Steve Jobs ho letto che attribuiva parte del suo successo ai corsi di calligrafia condotti da giovane. Avevano influenzato il suo modo di concepire il prodotto informatico. Studiare è, certamente, un investimento. Ma non solo un investimento a fini economici. E’ prima di tutto un investimento sulla propria felicità (eudaimonia).
Calo degli iscritti, l’università non è un investimento
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