Il debito dei paesi ricchi, che ha iniziato a camminare a metà degli anni ’70, ormai corre. Una corsa che ogni anno deve essere sostenuta da gigantesche emissioni globali di bond sovrani. Almeno 10,9 trilioni di dollari nel 2013 secondo l’Ocse, che al tema dei prestiti agli stati ha dedicato un recentissimo outlook dove, fra le altre cose, è contenuto un grafico che illustra l’andamento del debito pubblico/pil delle economie avanzate dal 1880 ai nostri giorni.
Seguendo questa curva capiamo che la corsa forsennata del debito dura senza sosta ormai da decenni senza che nessuno sappia bene come e quando si riuscirà a tirare il fiato. Agli albori del XXI° secolo sembra ci sia un arretramento, ma è solo una rincorsa. Dal 2001 la curva s’impenna vertiginosamente, diventa ripidissima e sale verso quota 80%. Ancora una breve flessione, a metà del primo decennio, e poi, dal 2007 un’impennata ancora più ripida, irreferenabile.
Nel 2012 la vetta è praticamente raggiunta.
I paesi ricchi sono riusciti a tornare dov’erano alla fine della seconda guerra mondiale: al 120% del debito sul pil.
All’epoca il deleveraging fu rapido e traumatico, lo si vede chiaramente osservando la curva. L’iperinflazione post bellica riportò la curva del debito/pil dal 120% al 40% in pochissimi anni. Dai primi anni ’50, la curva del debito scende ulteriormente, arrivando a poco più del 20% nei primi anni ’60, l’epoca del boom. Un po’ come accade oggi alle economie emergenti.
Nel decennio successivo la curva del debito torna a salire, tocca un picco vicino al 40% e poi si riabbassa. Gli shock petroliferi e l’inflazione che ne seguì consentono agli stati di pagare le prime cambiali siglate per garantirsi la pace sociale promuovendo il welfare.
Ma la nostra guerra, quella che oggi ci presenta il conto, comincia da lì in poi.
E che sia una guerra, combattuta con le armi della politica, dell’opinione pubblica, dell’economia, ormai è noto a tutti. Il fatto stesso che gli stati debbano cercare ogni anno oltre 10.000 miliardi di dollari per saziare la propria fame di debito ne è la conferma. In una situazione di risorse scarse, o comunque non illimitate, la lotta per la sostenibilità dei bilanci pubblici è di per sé una lotta per la sopravvivenza. Specie quando riguarda stati ricchi, abituati a vivere da decenni ben al di sopra delle proprie possibilità, con opinioni pubbliche molto civili e altrettanto viziate.
L’outlook Ocse esamina anche le diverse strategie messe in campo dagli Stati per assorbire questo debito monstre. Dedica ampio spazio alla crisi dell’euro, e rivela alcune curiosità come quella che la Fed, solo nel 2011, ha comprato oltre il 60% del debito emesso dal Tesoro Usa. Un po’ come faceva l’Italia prima del divorzio con la Banca d’Italia del 1981.
Ma anche i bilanci delle banche centrali hanno un limite. A parte la Fed, il cui bilancio è sostanzialmente quadruplicato dal 2008 al 2012 proprio per sostenere la fame di debito del Tesoro, anche le banche centrali non americane hanno visto crescere le proprie riserve di titoli di debito Usa. Nel 2007 detenevano poco più del 15% dei Treasury in circolazione, nel 2012 avevano superato abbondantemenre il 40%.
Questo per dire che far rallentare la corsa del debito non sarà facile, né indolore. La storia ci mostra con chiarezza che a picchi elevati di indebitamento sono seguiti rapidi crolli con tutto il loro portato di depressione e caos economico. E’ successo dopo la prima guerra mondiale. E’ successo dopo la sbornia dei ruggenti anni venti con la crisi del ’29. E’ successo, con ancora maggiore evidenza, dopo il 1945. E potrebbe succedere anche per i debiti della guerra per il benessere, combattuta nell’ultimo quarto del XX secolo per transitare le società occidentali dal warfare al welfare.
Finita una guerra, può sempre cominciarne un’altra.