Pubblichiamo un articolo del dossier “Dopo Chávez: un nuovo capitolo del Sud America” dell’Ispi
La scomparsa di Hugo Chávez avrà un profondo impatto sulla politica interna ed estera del Venezuela e di conseguenza sulle sue relazioni con gli Stati Uniti d’America.
Se ci sarà un trasferimento pacifico del potere tramite elezioni regolari, nel medio periodo è legittimo attendersi un miglioramento dei rapporti bilaterali (che dal 2010 non vengono gestiti da ambasciatori ma da diplomatici di rango inferiore). Questo per una serie di considerazioni geopolitiche che non sono sfuggite allo stesso Chávez: il Venezuela ha bisogno degli Usa più di quanto gli Usa abbiano bisogno del Venezuela, e dati i problemi economici di Caracas non è più il tempo di sogni di grandeur regionale. Il colonnello bolivariano stesso, poche settimane prima di morire, ha autorizzato la ripresa del dialogo con Washington. In questo senso, la sua scomparsa avrebbe un significato più che altro simbolico.
Senza dubbio se il suo successore fosse un esponente del fronte anti-chavista il disgelo con gli Usa sarebbe in cima alla lista delle priorità; mentre se il prossimo capo di stato fosse un rappresentante del fronte bolivariano, questi potrebbe essere tentato dallo sfruttare l’anti-imperialismo a fini elettorali e per stabilire la propria legittimità. In questo secondo caso, anche Cuba entrerebbe nell’equazione e la distensione con gli Usa arriverebbe solo successivamente.
Se invece il regime bolivariano cercasse di mantenersi al potere senza convocare elezioni, comprometterebbe il riavvicinamento con Washington, ma soprattutto aprirebbe una pagina di enorme incertezza per Caracas. Stesso scenario nel caso ancor più improbabile di un tentativo di golpe da parte dell’opposizione.
Per capire perché le relazioni tra Usa e Venezuela sono destinate a migliorare senza Hugo Chávez può essere utile ricapitolare perché sono peggiorate nel periodo in cui questi è stato presidente (il primo dei suoi quattro mandati è iniziato nel gennaio 1999).
Fino almeno al 2009, Chávez ha portato avanti un progetto geopolitico teso a soppiantare la tradizionale egemonia degli Stati Uniti in America Latina e a fare del Venezuela una potenza regionale. Alla base di questo progetto c’erano due elementi: le risorse economiche e l’ideologia.
Le prime provenivano dall’export del petrolio, principale risorsa venezuelana, il cui prezzo ha toccato livelli record fino allo scoppio della crisi globale. Caracas ha così potuto sussidiare con denaro e oro nero una serie (che negli anni è diventata abbastanza corposa) di stati sudamericani e caraibici in cambio della loro fedeltà politica a un progetto opposto al binomio democrazia-libero mercato caro agli Stati Uniti. La dottrina di politica estera di Chávez, concretizzatasi in un network di alleanze di cui l’Alba è quella principale, poggiava sull’idea di socialismo del XXI secolo del filosofo tedesco Heinz Dieterich Steffan e sulle indicazioni del dittatore cubano Fidel Castro. Obiettivo dichiarato: privilegiare il benessere sociale dei popoli e l’ambiente rispetto alla mera convenienza economica cara al neoliberismo. Corollario implicito: come scritto, fare del Venezuela una potenza regionale.
Lo scontro con gli Stati Uniti era intrinseco a questo disegno sia perché gli Usa rappresentano valori opposti a quelli professati da Chávez, sia perché sono il paese più influente nella regione. Inoltre l’ex presidente George W. Bush, che non aveva condannato il tentato e fallito golpe antichavista del 2002, era un bersaglio comodo per la retorica del colonnello bolivariano, il quale non perdeva occasione per insultarlo e ridicolizzarlo nei consessi internazionali (compresa l’Assemblea Generale dell’Onu). Questa retorica anti-statunitense nascondeva convenientemente il fatto che Washington era (ed è tuttora) il principale partner commerciale di Caracas nonché il suo maggior acquirente di petrolio: il Venezuela ha bisogno degli Stati Uniti molto più di quanto questi ultimi abbiano bisogno del Venezuela, e questo Chávez l’ha sempre saputo.
Dal 2009 il progetto regionale di Chávez ha perso vigore per una serie di motivi: l’opposizione del Brasile (a sua volta aspirante potenza con Lula), il calo del prezzo del petrolio che ha causato una diminuzione dei fondi per la politica internazionale e una recessione nel 2009 e nel 2010, infine la malattia del presidente, che lo ha gradualmente costretto a uscire di scena. Criticare la Casa Bianca è stato inoltre più difficile da quando il suo inquilino non è più Bush Jr. ma un democratico e afroamericano come Barack Obama.
Per quanto alimentata occasionalmente dalla retorica anti-imperialista di Chávez, nei fatti l’opposizione agli Stati Uniti è andata lentamente scemando negli ultimi anni; Caracas ha perso gran parte della sua carica anti-sistemica ottenendo in cambio riconoscimenti importanti come l’ammissione nel Mercosur (luglio 2012) e la partecipazione come “paese accompagnante” al processo di pace tra la guerriglia delle Farc e il governo colombiano. È di poche settimane fa la notizia che Chávez aveva autorizzato contatti con la diplomazia statunitense per favorire il disgelo.
Nel caso in cui a succedere al colonnello bolivariano fosse un anti-chavista (Henrique Capriles dovrebbe essere il candidato dell’opposizione alle prossime elezioni), questo disgelo sarebbe rapido e onnicomprensivo. Innanzitutto, il Venezuela metterebbe definitivamente da parte i suoi piani di egemonia regionale e di opposizione agli Usa; rinuncerebbe pertanto alle alleanze anti-imperialiste che fanno storcere il naso a Washington, a partire da quelle con Cuba e Iran; nei consessi internazionali voterebbe come – non contro – gli Stati Uniti; le critiche all’Organizzazione degli Stati Americani cesserebbero o almeno perderebbero la loro componente ideologica. Il governo del Venezuela avrebbe insomma una politica estera molto più pacata.
Sul piano interno, questo esecutivo sarebbe più impegnato nella lotta al narcotraffico e più favorevole agli investimenti internazionali, due ulteriori elementi graditi a Washington.
Se la presidenza del Venezuela passasse a un esponente del chavismo (il vicepresidente Nicolás Maduro, proposto come candidato in caso di nuove elezioni dallo stesso Chávez, pare il favorito), il processo di riavvicinamento sarebbe più complicato: il nuovo capo di stato potrebbe ricorrere alla retorica anti-statunitense tanto cara in passato a Chávez per accreditarsi come suo successore e non mostrarsi debole. Particolarmente difficile sarebbe rompere i legami (anche militari) con Cuba; oltretutto, il colonnello bolivariano è stato operato e curato sull’isola. L’influenza ideologica e politica dei Castro su Chávez è nota, quella sui suoi adepti meno, ma non per questo è necessariamente meno vasta. Maduro è stato ministro degli Esteri ed è, tra i chavisti, l’uomo che più ha stretto i contatti con Fidel e Raúl Castro.
Presto o tardi, anche un presidente chavista dovrebbe comunque fare i conti con la realtà economica, che sconsiglia la rottura con Washington. L’atteggiamento di sostanziale disinteresse dell’amministrazione Obama non costringerà chi governa Caracas a umiliarsi, anzi può favorire una distensione dietro le quinte. Le condizioni sarebbero sempre quelle: rinuncia all’assertività antistatunitense sul piano regionale, interruzione dell’alleanza con l’Iran (su Cuba in questo scenario gli Usa potrebbero chiudere un occhio), maggiore impegno nella lotta al narcotraffico e più disponibilità nei confronti della libera impresa.
Se queste condizioni venissero accettate, occasionali – o ripetute – invettive contro gli Stati Uniti rappresenterebbero a quel punto una distrazione, e verrebbero tollerate in quanto tali dalla Casa Bianca.
Un terzo scenario è più preoccupante: prevede che il regime bolivariano cerchi di mantenersi al potere senza convocare elezioni. Secondo questa ipotesi, l’opposizione di destra verrebbe accusata di tramare un colpo di stato con l’aiuto degli Usa; si procederebbe all’arresto dei suoi leader e dei militari coinvolti nel piano di golpe, che sarebbero individuati tra quelli più freddi nei confronti del chavismo. Verrebbe proclamato lo stato d’emergenza e le garanzie costituzionali verrebbero sospese.
Questa terza opzione, che scatenerebbe il caos e avrebbe esiti imprevedibili, è da considerarsi al momento solo un’ipotesi di scuola. Ciononostante, va notato che il 5 marzo il vicepresidente Maduro ha denunciato in diretta tv il tentativo dell’opposizione di destabilizzare il paese, accusando “i nemici storici della patria” di aver intensificato i loro attacchi ed espellendo due militari statunitensi distaccati presso l’ambasciata Usa a Caracas, accusati di spionaggio e di tramare contro la stabilità nazionale.
Dichiarazioni di questo tipo potrebbero avere l’unico scopo di delegittimare l’opposizione in vista delle elezioni, la cui indizione è prevista entro 30 giorni; ma se davvero l’apparato chavista scegliesse di gridare al complotto, è superfluo constatare che gli Stati Uniti finirebbero immediatamente sul banco degli imputati. I rapporti bilaterali sarebbero compromessi.
Lo stesso accadrebbe naturalmente se questo complotto venisse effettivamente ideato con l’aiuto statunitense. Sono però passati oltre 50 anni dalla Baia dei Porci e quasi 40 dal golpe in Cile; rispetto al 2002, alla Casa Bianca c’è un presidente che non ha il Venezuela in cima ai suoi pensieri. È difficile ritenere che gli Usa abbiano ancora intenzione di partecipare a colpi di stato in America del Sud. Oltretutto, l’opposizione venezuelana dopo il 2002 pare aver abbandonato le tentazioni golpiste.
La morte di Hugo Chávez è un evento determinante nella storia del Venezuela e segna, almeno simbolicamente, la fine di un’era. Dopo di lui, le relazioni con gli Stati Uniti potranno migliorare o peggiorare, ma certamente non rimarranno immutate.
Niccolò Locatelli è web editor e collaboratore di “Limes”.