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Ricordando Aldo Moro

Celebriamo i trentacinque anni che ci separano dal rapimento di Aldo Moro e dall’assassinio della sua scorta con profonda amarezza e delusione vedendo che il loro sacrificio non è valso a ripristinare un minimo di solidarietà nazionale, cioè la ragione opposta alla impresa terroristica delle brigate rosse che riuscirono a bloccare lo Stato democratico.

Ho ancora dinanzi agli occhi il Moro che, il 28 febbraio 1978, cercava di convincere i riottosi esponenti della destra clericale, in testa Oscar Luigi Scalfaro, a non ostacolare un esperimento politico – la corresponsabilizzazione del partito comunista – che potesse salvare la VII legislatura: che aveva avuto due vincitori e un’Italia bipolare determinata dagli elettori, non dai partiti.

E rammento quella mattina del 16 marzo, quando il parlamento si accingeva a dare fiducia ad un governo di solidarietà nazionale vera, con il grosso delle truppe parlamentari del Pci mugugnanti e sostanzialmente contrarie alla linea politica sortita dalla paziente propositiva e articolata tela di Moro.

In sostanza, si trattava di smussare l’orgoglio di chi, abituato a beneficiare della conventio ad escludendum, non intendeva rinunciare ai privilegi del passato e non riconoscere il senso dell’avanzata del principale antagonista, il Pci, giunto ad una spanna dalla Dc; ma anche la supponenza di un partito comunista, pago del potere regionale e locale, e dal cui seno provenivano i nuovi rivoluzionari, dall’ideologismo assassino e pseudoegualitarista che stava minando le istituzioni con tenace volontà distruttiva.

Trentacinque anni sono l’equivalente di due generazioni, più di un terzo di secolo che avrebbe dovuto consentire alla politica passi in avanti rilevanti, l’acquisizione di una mentalità ed una cultura più aperte e disponibili; non le spartizioni di potere ma il loro esatto contrario: una  consapevolezza  della realtà nazionale e internazionale; una attenzione ai doveri, e non soltanto ai diritti, di una società mutabile densa di fascini come di tentazioni pericolose per gli assetti democratici, che vanno difesi di continuo e non essere mai dati per certi e definitivi.

Invece ci ritroviamo, a distanza di oltre tre decenni, dinanzi ad una rappresentazione politica disarmante; in presenza di schieramenti abborracciati (nessuno escluso) dove i soggetti giocano come a parti invertite; con sinistre che si considerano invulnerabili e non hanno più lucidità strategica; con un centro scomparso dietro piccoli cabotaggi opportunistici e squalificanti; con un centrodestra che si trova nelle condizioni del Pci di allora e non sa come affrancarsi dal complesso  della esacerbazione giudiziaria e scendere a patti con una sinistra che non ha vinto, mentre un nuovo avanguardismo destruens si considera già padrone di un’Italia che vorrebbe definitivamente liberarsi dei partiti, cioè della democrazia.

Siamo messi male, anzi malissimo. Nuovi purificatori della società non possono fare primavera in una società plurale dove sembra essersi spenta la fiaccola del confronto, e del rischio di qualsiasi confronto che è tipico di qualsiasi politica responsabile. Ma vecchi (o invecchiati) soggetti che arranchino sui loro antagonismi con scambio di ruoli, non possono sfuggire al dovere di ricercare un minimo di solidarietà e di collaborazione: quel tanto che possa portare l’Italia fuori dalle secche del disastro economico e di un ancora più profondo disastro politico.

 



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