La recente elezione al Soglio pontificio di Papa Francesco sembrerebbe abbia ridestato l’interesse sul rapporto tra cattolicesimo e mercato. Un rapporto difficile, conflittuale e storicamente segnato dalle storture e dalle ingiustizie causate da uomini che hanno fatto della ricerca del successo “ad ogni costo” la loro norma di vita. Le istituzioni non sono soggetti di atti morali, di conseguenza, non sono in sé né buone né cattive, riflettono le azioni e i modi di pensare delle persone che vi operano. Di qui il sorgere e il prosperare di numerose strutture di peccato che hanno segnato negativamente il corso della storia del capitalismo e la ragione della distinzione operata dall’economista tedesco Wilhelm Röpke, oltre che dagli italiani Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, tra “capitalismo storico” ed “economia di mercato”.
A ben guardare, una distinzione che ritroviamo anche nella Centesimus annus, allorché Giovanni Paolo II nel paragrafo 42 distingue tra capitalismo e capitalismo, preferendo l’espressione “economia libera”, dal momento che il termine “capitalismo” appare eccessivamente compromesso con la realtà storica nella quale è emerso e si è sviluppato.
Non v’è dubbio che, come ci ha fatto notare il compianto don Angelo Tosato, la ricchezza in numerosi brani del Vangelo viene presentata come un ostacolo insormontabile per avere accesso al Regno di Dio. Basterà leggere i seguenti brani: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20) e “guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione” (Lc 6,24). Dalla lettura di questi brani non si evincerebbe forse una dottrina cristiana fortemente contraria all’economia di mercato? Se assumiamo la povertà come contraltare del mercato e la ricchezza come sinonimo di sfruttamento, allora la risposta è indubbiamente positiva. Se, al contrario, come ritengo sia più corretto, si considera l’ipotesi secondo la quale optare per la povertà significa anche saper rinunciare ad ottenere un risultato “ad ogni costo”, donando questa rinuncia e questa perdita per il benessere proprio e altrui, e se si considera la ricchezza un mezzo per aiutare chi non è in grado di farcela da solo, allora la risposta è chiaramente negativa. Dunque, la domanda si sposta su quale sia lo strumento migliore per ridurre i casi di sfruttamento e di immobilismo sociale e, nel contempo, per massimizzare la moltiplicazione e la diffusione della ricchezza.
Tosato ci invita ad andare oltre una lettura “acritica, astorica, ascientifica” dei testi sacri. Una lettura dalla quale si evince una vulgata che perpetua l’opinione riguardo alla condanna evangelica della ricchezza e l’esaltazione ad abbracciare la povertà, intesa appunto come contraltare del mercato. Per Tosato questa sarebbe una prospettiva “dannosa e inattendibile” sia sul piano “teorico” sia su quello “pratico”. Il Vangelo, dunque, non condannerebbe la ricchezza in quanto demoniaca, ma denuncerebbe il fatto che essa sia caduta nelle mani del Demonio e dei suoi servitori. Né, tanto meno, il Vangelo condannerebbe i ricchi, bensì esalterebbe il loro sacrosanto dovere di essere caritatevoli. Così, ad esempio, l’aut aut di “Non si può servire due padroni”, per Tosato, non indicherebbe una scelta tra Dio e la ricchezza, bensì tra il “servire” Dio e il “servire” la ricchezza, diventare suo schiavo, eleggendola a proprio Kyrios.
Soltanto in questo caso, secondo Tosato, esiterebbe un’incompatibilità. Con riferimento al brano di Luca, di cui abbiamo proposto la lettura, afferma: “appare del tutto arbitrario leggere il detto in esame come una condanna radicale del perseguimento della ricchezza, quasi che la ricchezza sia di per sé demoniaca. Quel che il detto condanna è che il fedele proceda, lui, a modificare la natura della ricchezza, trasformandola in anti-Dio, rendendola demoniaca, demonio”. È esattamente questa dinamica dell’economia, che nella nostra epoca ha assunto una forza del tutto straordinaria, che preoccupa Papa Francesco e che ritroviamo anche nelle sue omelie precedenti all’elezione a Pontefice, quando ad esempio afferma: “L’economia speculativa, priva di etica, insegue l’idolo del denaro. Per questo non si hanno remore a trasformare in disoccupati milioni di lavoratori”.
È l’identificazione del denaro come idolo ad essere condannata, un idolo al quale inchinarsi e in nome del quale sacrificare le nostre scelte. Un idolo che si presenta con le vesti ordinarie e quotidiane del successo professionale, del mors tua vita mea, di chi pretende di raccogliere senza aver seminato e di chi semina la morte per il proprio tornaconto. È l’idolo accattivante e generalmente tollerato perché un po’ tutti ci rappresenta, nei confronti dei quali si è solitamente più indulgenti e auto assolutori. In breve, è un atteggiamento, una predisposizione, un comportamento che diventano costume, l’aria stessa che respiriamo che giunge a intossicare le nostre coscienze e a corrompere le istituzioni della democrazia e del mercato. È l’insana pretesa di essere assolti anche quando “ad ogni costo” e “a qualsiasi prezzo” anteponiamo il nostro interesse immediato a quello di chi ci vive accanto, fosse anche qualcuno che deve ancora nascere o che vive dall’altra parte del mondo.