E’ stato chiamato, da alcuni giornali, come il “Consiglio della corona“. Si tratta del gruppo di otto cardinali, tra i quali un solo italiano, al quale Papa Francesco ha demandato il compito di proporre una riforma della curia romana, così come richiesto da più parti nel corso delle Congregazioni generali che hanno preceduto il recente conclave. Un gruppo di lavoro, quello istituito dal successore di Benedetto XVI, al quale però è anche stato affidato il più generale compito di “consigliare nel Governo della Chiesa”. Ma cosa faranno questi otto “saggi”? Quali le possibili linee di riforma della curia? Formiche.net ne parla con Francesco Clementi, professore di diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi di Perugia e autore del volume “Città del Vaticano” (Il Mulino).
Professore Clementi, si dice che la mancata riforma della Curia sia il più grande rammarico del Papa emerito Benedetto XVI. Secondo alcuni, addirittura, starebbe alla base della sua decisione di rinunciare al ministero petrino. Per quale motivo, secondo lei, Benedetto XVI non è riuscito nel suo intento?
La riforma della curia romana era senza dubbio uno degli obiettivi di Benedetto XVI. Papa Ratzinger era un uomo che proveniva da quella stessa curia che avrebbe voluto riformare e che perciò conosceva molto bene. Nel suo caso, in particolare, essere un uomo di curia, da un lato, poteva avere tanti vantaggi, dall’altro lato aveva, al contempo, anche un grande svantaggio: forte, infatti, era il rischio di rimanere avviluppato a logiche tutte interne alla curia stessa. E sono proprio queste logiche che gli hanno impedito di riformare la curia così come avrebbe invece desiderato.
C’è chi ha voluto ipotizzare, anche per una ragione di vicinanza temporale, un collegamento tra il gruppo di lavoro composto dagli otto cardinali e i “saggi” nominati dal Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano. Lei vede qualche analogia?
No. Tra i due gruppi esistono delle profonde differenze tanto che trovo un po’ ardito fare un paragone tra loro. Ai saggi nominati da Napolitano è stata chiaramente attribuita una funzione maieutica in prospettiva dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, con il compito di trovare una convergenza su pochi punti di rilevanza fondamentale. Agli otto cardinali, invece, Papa Francesco ha voluto attribuire una funzione prettamente di consiglio nel governo della Chiesa
Quanto c’è di “gesuitico” nella decisione di Papa Francesco di creare questo gruppo di lavoro?
Moltissimo. Sino ad oggi, infatti, la governance della Chiesa si caratterizzava per una struttura di governo simile a quella degli Stati nazionali, con la presenza, appunto, di un capo di Stato ed un primo ministro. La scelta di Francesco va ad innovare in modo significativo, optando per uno schema diverso. La Chiesa diventa così una grande “organizzazione” che si fonda sulla capacità di ascolto delle comunità locali. E’ una struttura che si basa, quindi, sulle comunità e non sulla struttura, così come dimostrato dalla decisione di indicare un cardinale per ogni continente. La Chiesa vuole quindi porsi in ascolto del mondo prima che di se stessa. E questa struttura tipicamente geografica è propria, in primis, della Compagnia di Gesù, alla quale Bergoglio appartiene.
Tra i compiti attribuiti al gruppo di lavoro vi è anche quello di “consigliare nel governo della Chiesa”. Non trova che potrebbe crearsi una certa sovrapposizione con il collegio dei cardinali, ovvero l’organo consultivo per eccellenza?
In effetti qualche rischio in tal senso potrebbe anche esserci. Il Papa, però, ha semplicemente voluto individuare al loro interno alcuni interlocutori privilegiati, facendo ben attenzione che essi rappresentassero la componente geografica di tutto il collegio cardinalizio. Con tale cardinali, dunque, Papa Francesco ha deciso di condivide in maniera più stretta le linee del proprio pontificato. A mio avviso, però, l’uno non esclude l’altro. Anche perché da sempre, sia nella Chiesa che in uno Stato, esiste un rapporto privilegiato tra chi “comanda” ed alcuni più stretti collaboratori.
Nel corso delle Congregazioni generali molti cardinali hanno chiesto una maggiore collegialità nella Chiesa. Pensa che gli otto cardinali si orienteranno in tal senso?
Quello della collegialità è senz’altro uno dei primi punti che i cardinali affronteranno. Si tratta di un problema molto sentito all’interno della Chiesa, dove in molti hanno poteri consultivi ma alla fine le decisioni vengono assunte sempre dal Papa in persona. La collegialità può segnare senza dubbio il passaggio ad una Chiesa più informata, capace di assumere decisioni in maniera più rapida. E’ proprio grazie alla collegialità che la Chiesa può essere molto più vicina alle singole realtà di quanto non lo sia oggi.
In un’intervista al Corriere della Sera il segretario del gruppo, Monsignor Semeraro, ha confermato che si potrebbe arrivare ad una riforma della Segreteria di Stato riducendo anche i poteri del Segretario di Stato. La ritiene una scelta percorribile?
Quando l’azione di un Papa è particolarmente incisiva sul piano della dimensione temporale, il ruolo del Segretario di Stato aumenta in maniera esponenziale. Quando invece, come nel caso di Papa Francesco, la dimensione temporale è solo funzionale alla dimensione spirituale, allora una diminuzione del ruolo del Segretario di Stato può consentire di esercitare al meglio questa funzione spirituale. E’ quindi auspicabile che il Segretario di Stato torni ad essere il “primus inter pares” tra i collaboratori del Papa e non, come è stato talvolta in passato, un vero e proprio primo ministro di un governo temporale.
Il presidente del gruppo di lavoro, cardinale Maradiaga, ha precisato che probabilmente i cardinali si occuperanno anche della riforma dello Ior. Quale riforma auspica per la banca del Vaticano?
Parlando dello Ior, è necessario fare un ragionamento scevro da pregiudizi. Occorre, innanzitutto, chiedersi se il Papa abbia bisogno di una banca in quanto tale. Successivamente, occorre chiedersi a cosa servano i soldi per la Chiesa e quale meccanismo giuridico possa favorire l’utilizzo dei soldi da parte della Chiesa. Credo che l’obiettivo dei porporati sarà quello di scorporare la funzione del denaro come strumento di evangelizzazione che, a mio avviso, dovrebbe essere potenziato, e la sua funzione come strumento per l’esercizio del potere temporale. Ciò perché il vangelo cammina sulla base dell’evangelizzazione e non del potere temporale. Se dovessi quindi rispondere alle due domande iniziali, direi che il Papa non ha bisogno di una banca ma di un istituto che si occupi dell’esercizio del denaro in un’ottica evangelizzatrice.
Un’ultima domanda. Papa Francesco, in questo suo mese di pontificato, è stato presentato come un pastore. Ora, però, improvvisamente si presenta come un uomo di governo. Ha forse voluto lanciare un messaggio preciso?
Questa interpretazione è una chiara forzatura che a tale livello non rappresenta nulla. Non è possibile ricondurre le azioni di Papa Francesco ad un solo ambito. Bergoglio è al tempo stesso un uomo di profonda spiritualità e un uomo che in passato ha avuto importanti esperienze di governo. E’ stato alla guida dei gesuiti in Argentina ed è stato a lungo arcivescovo della diocesi di Buenos Aires. Papa Francesco ha quindi perfettamente chiaro cosa significhi governare e, infatti, mi pare abbia la grande forza del decisore.