Mentre 1.007 grandi elettori a Montecitorio si apprestano a decidere chi sarà il nuovo inquilino del Quirinale, quello uscente sta per lasciare le sue stanze. Ma il segno che Giorgio Napolitano ha lasciato nel suo settennato da Presidente della Repubblica rimarrà. Formiche.net lo ripercorre con Vincenzo Lippolis, professore di Diritto comparato all’Università degli studi internazionali di Roma e autore con Giulio M. Salerno del saggio appena edito dal Mulino,“La repubblica del Presidente”.
Professore, quali sono gli atti più significativi per cui sarà ricordato Giorgio Napolitano?
“Ci sono alcuni interventi molto significativi, come la formazione del governo Monti, il rifiuto del decreto legge sul caso Englaro (il governo Berlusconi tentò di far evitare l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale per l’interruzione dei trattamenti che tenevano in vita Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente, ndr). Ma al di là dei singoli atti, il suo settennato sarà ricordato più che altro per alcuni aspetti di carattere generale che hanno rafforzato il ruolo del capo dello Stato nel sistema istituzionale”.
Quali sono questi aspetti?
“Napolitano, ad esempio, ha cambiato la natura stessa del potere di esternazione, non limitandolo a singoli atti ma intessendo un dialogo continuo con l’opinione pubblica. L’ha fatto principalmente in due modi: fornendo sempre la motivazione delle sue prese di posizione e sottoponendosi al giudizio degli italiani. E in questo ha influito anche l’utilizzazione della rete internet. Il rapporto con l’opinione pubblica è un’arma a doppio taglio: può esporre a critiche o può essere fonte di legittimazione. Napolitano ha vinto la sua battaglia”.
Una delle più ricorrenti in questi sette anni è stato il suo eccessivo interventismo. È stato così?
“Che il Presidente della Repubblica sia interventista oppure no dipende da come funzionano in un dato momento il sistema dei partiti e il rapporto tra parlamento e governo. Se i partiti sono forti e il rapporto parlamento-governo fluido, il ruolo del capo dello Stato viene compresso. In una situazione di debolezza politica invece esso tende a espandersi. L’anomalia di questi anni non è stato l’interventismo di Napolitano ma il decotto sistema dei partiti della seconda Repubblica. Napolitano è stato un ‘motore di riserva’ della vita politico-istituzionale perché il motore principale era molto giù di giri”.
Qualcuno ha parlato in riferimento ai continui richiami di Napolitano di “presidenzialismo di fatto”…
“È improprio utilizzare questa espressione perché il Presidente è sì intervenuto molto a causa della situazione oggettiva che l’ha portato a farlo ma è sempre rimasto nei limiti consentiti dall’elasticità del disegno costituzionale. Bisogna poi sottolineare che Napolitano ha operato più con atti informali che formali. Non ha mai mandato per esempio messaggi alle Camere ma ha optato per quello che gli anglosassoni chiamano ‘moral suasion’”.
Ma i suoi messaggi sono stati raccolti dai destinatari?
“In alcuni casi ha avuto successo, in altri no. Per esempio, il capo dello Stato ha costantemente richiamato l’attenzione delle forze politiche e dell’opinione pubblica sulla necessità di cambiare la legge elettorale. Napolitano aveva capito l’inadeguatezza della legge ma non vi è stata risposta da parte dei partiti. Inoltre nell’ultima parte della legislatura, aveva sollecitato altre riforme come una legge organica di disciplina dell’attività dei partiti e del loro finanziamento ma non gli è stato dato ascolto. L’effetto per la credibilità dei partiti tradizionali è stato devastante, come è testimoniato dai risultati elettorali”.
“L’ultimo comunista” è il titolo di un libro che parla di lui a firma di Pasquale Chessa. Quanto ha pesato la sua vecchia appartenenza al Pci nel suo operato?
“Napolitano ha agito in funzione della tutela degli interessi nazionali, non vedo alcun condizionamento della sua origine politica nella sua opera al Quirinale. Sicuramente si è avvalso della sua lunga esperienza politica e questo è stato un bene”.
I sondaggi incoronano Napolitano come molto amato dagli italiani. Perché?
“C’è un alto tasso di popolarità di questo Presidente, gli italiani hanno visto in lui in questo momento di grave crisi un punto di riferimento saldo per il Paese”.
Sarà per questo che molti vorrebbero ancora lui al Quirinale?
“Napolitano lo esclude. In effetti nessun presidente è stato mai rieletto. Il termine dei sette anni è, nel panorama internazionale, il più lungo per quanto riguarda una carica politica. La Costituzione non vieta la rielezione ma la lunghezza del mandato è di fatto un implicito ostacolo. Certo è che si parla tanto di una riforma costituzionale che dovrebbe necessariamente coinvolgere anche la figura del Presidente della Repubblica e in questa fase la presenza di Napolitano al Colle potrebbe agevolarla”.
Qual è la lezione che lascia Napolitano?
“Certi tratti abbastanza eccezionali della sua presidenza inducono a riflettere sulla necessità di riforme, su aggiustamenti costituzionali che riportino il funzionamento istituzionale su binari di maggiore normalità. Non può prevalere un sistema in cui il capo dello Stato debba supplire alle carenze del sistema dei partiti”.