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Giulio Andreotti, tattica e strategia del Machiavelli cattolico

Giulio Andreotti è morto oggi a Roma, a 94 anni.
Per decenni è stato figura centrale del panorama politico italiano e della Democrazia cristiana, di cui è stato influente protagonista, senza però mai diventarne segretario. Muore in un anno importante, forse decisivo per la politica italiana, segnata dalla conferma di Giorgio Napolitano al Quirinale. Anche il Quirinale non è mai stato raggiunto dal leader oggi scomparso. Nel 1992 si fece il suo nome per quella posizione, ma le cose andarono diversamente, con la sconfitta di Arnaldo Forlani e la repentina svolta verso Oscar Luigi Scalfaro, determinata da eventi improvvisi.

Andreotti non era un uomo di teoria, nel senso astratto e accademico del termine. Eppure nel suo tragitto personale si possono leggere in filigrana i grandi temi e le grande sfide della democrazia italiana, il rapporto tra politica e società, movimenti e partiti, Chiesa e Stato.
Il suo ultimo governo (1989-1992) ha portato a compimento l’europeizzazione del Paese, con la firma del Trattato di Maastricht e il superamento del bipolarismo mondiale delle cui ricadute interne Andreotti era fortemente consapevole. Anche se in quelle condizioni era agganciato ad uno schema problematico, il quadripartito con Craxi come “azionista di maggioranza”, e alle prese con un forte frazionamento interno della Dc, il premier traguardava già a nuovi equilibri, pensando al rapporto con un Pci trasformato in forza popolare e socialista. La conoscenza dei meccanismi diplomatici e la profonda cultura cattolica universalistica lo rendevano capace di visioni avanzate, in cui il tema del futuro non sarebbe stato il confronto Est-Ovest, ma Nord-Sud, come era nelle corde di pochi altri leader europei (uno su tutti: Willy Brandt).

Naturalmente, per ambizioni di questo tipo erano necessari cura degli equilibri interni, gradualismo, coltivazione di rapporti spesso difficili e polemici con poteri forti e gruppi non sempre teneri nei suoi confronti, specie negli ultimi anni. Era questa la tattica, su cui troppo spesso si è concentrata l’analisi, come se quel “tirare a campare” dovesse esaurire il significato della sua azione. Era, invece, funzionale a non affossare le basi di un progetto più organico, riformista e innovatore, dove anche l’Italia, atlantica ed europea, avrebbe avuto un ruolo fondamentale, al centro di nuovi equilibri mondiali.


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