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Vi racconto il vero Giulio Andreotti

Con Giulio Andreotti se n’è andato il politico più pragmatico d’Italia, maestro di compromessi i più arditi, navigatore esperto di acque perigliose anche quando “amiche”. Nella sua lunga, onorabile carriera politica gli sfuggirono due traguardi; la segreteria democristiana, cui non aspirò per insufficienza toracica, come gli era capitato da giovane per evitare il servizio militare; la presidenza della Repubblica, cui teneva molto, che svanì a seguito della strage mafiosa di Capaci, che inopinatamente andò a beneficiare il “meno democristiano di tutti”, il calabro-novarese Oscar Luigi Scalfaro.

Di aneddoti su Andreotti sono piene le cronache. Specie quelle scritte da avversari, spesso ottusi, che, conoscendone l’arguzia, pensavano di ferirlo con miserabilità di solida infondatezza. Di aneddoti di mano andreottiana son colmi i suoi scritti: quelli seriosi e ricostruttivi di tanti anni di storia repubblicana, e gli altri, per così dire leggeri, come Pranzo di magro per il cardinale, o Concerto a sei voci (la sua prima operina), o Ore 13: il ministro deve morire, tutte ricostruzioni storiche (della vita dell’illuminista cardinale Lambertini, poi papa Benedetto XIV; della costituzione del I governo Bonomi; dell’assassinio di Pellegrino Rossi, presidente del consiglio dello Stato Romano) proposti con scrittura essenziale, leggera, gradevolissima.

Andreotti sostenne più volte di dovere tutto ad Alcide De Gasperi. Che, scopertolo come giovane laureando e ricercatore nella Biblioteca Vaticana per una tesi sulla marina svizzera, più tardi lo volle con sé quale sottosegretario alla Presidenza del consiglio per la sua ferrea memoria e l’indubbia capacità ordinatrice. Ma Andreotti non fu l’ultimo degasperiano. Al V congresso di Napoli del 1954, quando presentò una propria lista di candidati, in maggioranza laziali, denominata Primavera, intese rivendicare una rappresentanza giovanile in polemica con la seconda generazione democristiana dei Fanfani e dei Lazzati, ma anche con la terza generazione dei Malfatti e dei ventenni basisti. Con la sua piccola, puntuta, monovriera Primavera Andreotti diventò il divo Giulio; collezionò tutti i ministeri raggiungibili nella lunga agonia del centrismo e fece una incredibile carriera di primo ministro, avviata dall’iniziativa di Moro del governo della “non sfiducia”: che ebbe nel Pci di Berlinguer il suo secondo perno essenziale. Il suo ultimo governo anticipò la liquidazione della Prima Repubblica.

Andreotti fu molto votato, ma anche molto odiato. Per lui taluni media, che della perfidia e dell’odio personale hanno fatto e mantengono la propria cifra distintiva, furono coniati epiteti pazzeschi: come Belzebù, il contrario di un uomo che, se non altro, era noto come pio, devoto, e religiosissimo. Arguto com’era, per carattere ma fors’anche per costumanze e frequentazioni cardinalizie, Andreotti non si sentiva toccato dagli insulti. Anzi, cristianamente neppure li ricambiava; non dando valore a tutto ciò che non valeva la pena neppure sfiorare, causa la loro evidente banalità.

Ma, col sorriso, Andreotti sapeva anche colpire; e affondare chi l’avversasse. Raramente l’ho visto arrabbiato; ma talvolta il suo sorriso stretto, quasi un ghigno, somigliava ad una lama affilata che non lasciava scampo a chi osasse sfidarlo. E ciò costituiva una sorta di seconda faccia del suo pragmatismo politico. Che poteva identificarsi come senso della realtà, conoscenza e attenta valutazione dei rapporti di forza, solidarietà anche se forzata e, soprattutto, rifiuto dell’ideologismo. Era talmente convinto della necessità, per l’Italia, di restare amica degli Stati Uniti anche in momenti di relazioni non facili, che non si curava di apparire troppo disponibile verso i palestinesi, quando nel Medio Oriente montava un preoccupante clima anti-Israele. Mai immaginò che, per questo suo filo-palestinismo, fosse accusabile di avere mutato strategia rispetto all’atlantismo.

Si è accomiatato in silenzio. Quasi a non volere dare fastidio a nessun politico impegnato nel quotidiano, lui che, della quotidianità della politica, era stato il teorico o, quanto meno, il docente per eccellenza. Certamente ha lasciato un vuoto nella vita di una Repubblica ormai senz’anima, rimanendo nella storia del paese.



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