Pubblichiamo un articolo dell’Aspen Institute Italia
Il violento conflitto in corso in Siria è una guerra civile (anche) settaria, un grave contagio regionale, e un disastro umanitario senza immediata prospettiva di risoluzione: di fatto, dunque, quasi tutti i temuti effetti di un eventuale coinvolgimento americano si sono manifestati anche senza alcun intervento diretto da parte americana o più ampiamente occidentale. In altre parole, la scelta di astenersi da un coinvolgimento sul terreno sta certo riducendo i costi militari e finanziari per Washington e gli alleati europei di una possibile coalizione, ma non i costi politici per la regione, e potenzialmente per gli stessi Stati Uniti nel più lungo termine. Nel frattempo, è assai difficile esercitare qualsiasi influenza su un conflitto in cui non si appoggia in pieno una delle parti in causa – senza cioè armare i “ribelli”, con tutti i rischi che ne conseguirebbero.
È chiaro che un cruciale obiettivo di Barack Obama è stato finora proprio ridurre al minimo i costi tangibili per gli Stati Uniti (lo stesso approccio adottato anche per le rivolte tunisina, egiziana, libica, come per quelle fallite e represse altrove): in questa ottica la linea americana ha raggiunto l’obiettivo. Ma rimane il dilemma strategico di come difendere gli altri interessi americani nella regione, e questo dilemma si fa più grave a seguito delle operazioni aeree israeliane in territorio siriano dei primi giorni di maggio.
È necessario identificare a questo punto le priorità di Obama, che sembrano finora essere state due, entrambe esterne alla Siria in quanto tale: l’Iran e Israele. La questione iraniana (focalizzata sul programma nucleare ma in realtà legata al peso complessivo di Teheran nell’intera regione) richiede tutto il capitale politico di cui Washington dispone, per gestire i delicati rapporti con la Turchia e gli alleati del Golfo e per garantirsi l’acquiescenza russa e cinese nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU; non si è voluto quindi spendere parte di quel capitale per ricercare difficili compromessi sul dossier siriano, nonostante il palese disastro umanitario e la pressione enorme su paesi confinanti come la Giordania e il Libano. Questo calcolo non sembra destinato a cambiare radicalmente.
Intanto, però, la vicenda siriana pone ora il problema aggiuntivo del rispetto degli impegni presi da Obama: la famosa “linea rossa” relativa all’uso di armi non convenzionali ha un significato che va ben oltre il regime di Assad, perché lancia segnali sull’affidabilità delle garanzie americane – con chiari riflessi anche sulla questione nucleare iraniana.
L’altra priorità è Israele, soprattutto in quanto attore regionale in grado di accelerare o provocare i possibili esiti militari che tutti giustamente temono nei difficili rapporti con Teheran. L’attivismo militare israeliano è poi da sempre il maggiore catalizzatore di coesione araba, e questo complica i calcoli per Washington se la Siria diventa anche il terreno di scontro tra Israele e molti dei suoi vicini.
Nella misura in cui c’è stata per Washington una priorità interna alla Siria, si è trattato della frammentazione del paese e della deriva islamista: qui si è innescata una dinamica perversa per cui il “non-intervento” indebolisce le poche forze moderate (e forse laiche) presenti sul terreno; intanto molti civili siriani incolpano comunque l’Occidente di perseguire i propri interessi ignorando la catastrofe umanitaria che sta colpendo quel popolo.
Insomma, tutte le ragioni di estrema prudenza che fin qui hanno condizionato Washington (e le capitali europee) restano valide; tuttavia, mentre aumentano le probabilità di essere comunque risucchiati controvoglia in qualche forma di intervento graduale in Siria, diventa più importante che mai elaborare un quadro diplomatico consensuale che consenta di gestire le ripercussioni del conflitto. In tal senso, i colloqui tra il segretario di Stato americano John Kerry e il suo omologo russo Sergey Lavrov sono un passaggio necessario: tra le tante e dure lezioni della vicenda irachena (con cui l’amministrazione Obama si confronta costantemente nel prendere le proprie decisioni sulla Siria), una è che qualunque operazione politico-militare deve poggiare su solide basi di consenso internazionale per limitare gli inevitabili danni collaterali e condividerne i costi. L’azione americana, pur con tutti i limiti oggettivi imposti dalle circostanze interne e regionali, diventa così decisamente più efficace.
Va comunque tenuta in conto una fondamentale differenza rispetto ad altre situazioni: nel caso siriano, è evidente da tempo che i paesi confinanti e vari gruppi con una capacità di penetrazione avranno – e già hanno, senza alcun dubbio – un ruolo attivo e cruciale nel ridefinire gli assetti del paese. Ciò vale tanto per gli alleati e i partner dell’Occidente, quanto per l’Iran e diverse forze jihadiste. Gli Stati Uniti e le altre potenze esterne all’area dovranno accompagnare o gestire queste influenze, non potendosi realisticamente opporsi ad esse in modo frontale. Tale considerazione ci riporta, ancora una volta, alla questione iraniana e a quella (quasi inseparabile) israeliana.