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Aldo Moro, 35 anni dopo. L’umanità di un politico

Si può cercare di raccontare Aldo Moro percorrendo i vialoni alberati, ampi e solenni del suo pensiero, di quella sua idea così peculiare della democrazia italiana e del suo destino. Un percorso che l’interessato avrebbe sicuramente gradito – e che servirebbe anche a fugare la grande quantità di pregiudizi, meschinità e piccinerie con le quali spesso continua ad essere interpretato.

Oppure si può cercare di spiegarlo per esempi, in modo quasi aneddotico, guardando di sottecchi e leggendo tra le righe. E magari provando a restituire a lui e a quanti non lo hanno mai conosciuto un tratto umano che la sua solennità di leader politico tendeva a nascondere. Proverò a seguire questa seconda via. Per molti anni dopo la morte di Moro ho cercato di riannodare il filo della memoria di tutte le volte che lo avevo incontrato. Vuoto (quasi) assoluto. Poi a poco a poco mi sono reso conto che in realtà Moro non parlava. Ascoltava.

I colloqui con lui erano degli interrogatori sempre garbati e qualche volta stringenti, quasi degli esami. Era curioso, domandava. E sembrava interessato anche a considerazioni minute, superficiali, che forse devono essergli sembrate banali, perfino inutili. Riceveva nello studio appartato di via Savoia, lontano dal turbine parlamentare e dalla concitazione di piazza del Gesù. Erano colloqui piuttosto lunghi, approfonditi, quasi mai di circostanza. La sua espressione era a volte indecifrabile, la mimica facciale ridotta al minimo. Si intuiva di tanto in tanto una garbata forma di ironia. Garbata, appunto. Mai un’impazienza, mai un’insofferenza. Come se il tempo fosse la variabile indipendente della sua giornata – oltre che della sua politica.

Un giorno mi invitò a seguirlo a Bari, all’inaugurazione della Fiera del Levante. Era presidente del Consiglio, partimmo il mattino presto con l’aereo di Stato. Salì a bordo il presidente della Rai, Finocchiaro. Quando incrociò Guerzoni – che era al tempo stesso portavoce di Palazzo Chigi e dirigente della Rai – Moro gli disse: è in regolari ferie. Era il suo modo di difendere il suo collaboratore più prezioso e insieme la sua idea di quale dovesse essere l’etica di una collaborazione politica. Alla Fiera tenne un discorso lungo, ascoltò altri discorsi lunghi, poi si avviò per un giro lunghissimo di tutti i padiglioni. A ogni metro si fermava, si intratteneva, si lasciava prendere prigioniero dagli espositori. A me, che ero ancora quasi ragazzo, parve interminabile. E faticosissimo. Quando rimettemmo piede sul predellino della 130 ministeriale, mi sentii in salvo. Ma in quel mentre sopraggiunse un signore affannato che pretese una visita al suo stand che nella fretta dovevamo aver saltato. Per la mia disperazione Moro si girò, riprese il cammino, percorse alcuni chilometri di esposizione, ascoltò consigli, moniti e preghiere, e si mise diligentemente in tasca un discreto numero di bigliettini.

Quel viaggio mi trasmise due insegnamenti. Il primo, che la politica è fatica. Il secondo, che la politica è disponibilità. Nulla di sontuoso, nulla di facile. La radice del potere era tutta nella sua umanità. All’epoca dirigevo Per l’azione, la rivista dei gruppi giovanili. Un giorno scrissi un editoriale in cui criticavo l’elezione di Ingrao a presidente della Camera. Un eccesso di spirito consociativo, pensavo all’epoca. Dal partito fui rimproverato, forse con qualche asprezza di troppo. Andai a via Savoia e me ne lamentai. Moro chiamò il suo amico Franco Salvi a piazza del Gesù e gli disse: Follini ha sbagliato, ma ha il diritto di sbagliare. I giovani sono così. Non potete censurare i loro errori, dovete scommettere sulla loro capacità di correggerli. Fui grato a Moro di quella telefonata, Salvi credo un po’ meno.

Ecco, Moro era così. Un notabile, un uomo di potere, uno che incarnava il potere direi quasi fisicamente – nel suo modo di vestire, di parlare, di tenere certe distanze. E insieme un uomo libero, non conformista, sempre a caccia di dettagli, di impressioni, di piccole novità racchiuse dentro il guscio di persone lontane ed estranee, cercate quasi sempre fuori dal Palazzo se così si può dire. L’iconografia della Prima repubblica lo ha immortalato nella sua ufficialità. Con quel linguaggio così complicato e a volte involuto. Con quei vestiti scuri e sobri, eccessivamente inappuntabili. Con quella solennità che faceva parte del suo carisma. Con quel vezzo di dare del lei a giovani e giovanissimi, quasi a marcare lontananza e insieme rispetto. Con quel suo rifiuto tenace di ogni forma di pressappochismo, che lo rendeva insofferente di ogni e qualsiasi semplificazione.

Era straordinariamente all’antica nei suoi costumi. E singolarmente moderno nella simpatia e apertura che dimostrava verso qualunque manifestazione di novità nel campo delle idee. Il ‘68 degli studenti lo affascinava. Ma quel tratto libertario e quella vocazione a colpire l’autorità, la tradizione, la consuetudine non appartenevano di certo al suo codice. Era un conservatore intelligente, che dialogava con i progressisti. Trovandosi così a combattere su due fronti. Con i progressisti, che in fondo non lo sentivano come uno dei loro. E con i conservatori meno intelligenti, che non gli perdonavano quello sforzo di comprensione non sempre alla loro portata. Nel ‘62, al congresso della Dc che diede il via al primo centro-sinistra parlò per quasi sette ore. Il computer segnala oggi che si trattava di oltre 250mila caratteri. Lascio ai cultori di Twitter e dei suoi 140 caratteri ogni riflessione al riguardo.

Altri tempi, si dirà. Ovvio. Ma anche per il suo tempo – assai più lento del nostro – Moro alle volte risultava quasi un alieno. Coltivava una profondità e una complessità di pensiero che anche allora molti vivevano con fastidio. E altrettanto fastidio c’era da parte sua verso quanti sacrificavano sull’altare della sintesi ragionamenti e sfumature che avrebbero richiesto un’attenzione meno affrettata e approssimativa. Moro è stato uno degli uomini più avversati di tutta la nostra vita repubblicana. Un frammento impazzito della sinistra lo ha giustiziato. E tanti altri, soprattutto a destra, in Italia e anche all’estero lo hanno contrastato e demonizzato. Curioso destino per un uomo politico che aveva dedicato tutto il suo tempo e le sue energie a mediare, cucire, fare sintesi.

Credo che fosse ben consapevole della impopolarità che tanta parte del Paese gli riservava. E che ne soffrisse, come è umano. Senza però farsi mai distogliere dal suo disegno. Forse proprio tutte queste avversioni, perfino quelle che incontrava dentro casa democristiana, gli rendevano ancora più chiara l’esigenza di suturare le mille fratture che avevano lacerato il tessuto politico del nostro Paese. Non gli ho mai sentito dire una parola fuori posto all’indirizzo di un oppositore politico. Ma credo che misurasse ogni giorno la distanza che correva tra le culture (e gli interessi) in gioco. E che ogni giorno si desse da fare per colmarle per quanto si poteva. Che quasi quaranta anni dopo non ci siamo ancora riusciti non può essere un caso. La nostra attuale difficoltà gli rende merito della sua intuizione. E magari spiega anche perché quella intuizione non sia andata a buon fine.

Marco Follini, giornalista, scrittore e politico

Intervento pubblicato sul numero di maggio della rivista Formiche



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