In queste settimane si è creato un caso “Kyenge” che personalmente mi procura un tormento interno che inizia con lo stupore, passa per il disgusto e si conclude nella totale disperazione.
Ho ascoltato dichiarazioni da parte d’esponenti politici (Borghezio, Salvini, Paradiso e Savino, per citarne alcuni) indegne. In queste dichiarazioni si leggono la rabbia, l’ignoranza, il disprezzo e la disumanità. Dopo le esperienze terribili della schiavitù e del nazi-fascimo, questo odio totale per l’altro doveva sparire, invece è perdurato. Si è manifestato un po’ ovunque nel mondo sul pretesto della “diversità” – di pelle, di credenza religiosa o politica, di preferenza sessuale, di appartenenza sociale; come un disvalore, anzi come un pericolo alla stabilità della “nostra” società. L’inganno è qua: è questo odio che produce pericoli, instabilità e corrode la società. È la distinzione “noi/loro”, questo confine invisibile, che produce dolore e morte, più di una qualsiasi divisione fisica e materiale tra città, nazioni e continenti. Il confine invisibile tra noi come “buoni” e loro come “nemici” è il veleno da estirpare.
Leggendo le dichiarazioni di Borghezio e di Salvini, piuttosto che le atroci scritte sui muri in alcune città (Padova o Pistoia) mi sono detto: “se loro sono italiani, e la pensano in questo modo, io cosa devo pensare? Sono italiano anche io e quindi sono come loro?” Il pensiero di poter essere “come loro” mi ha sconvolto da dentro. La mia risposta è un decisissimo NO! Io non sono “come loro” sono nato in Italia da genitori italiani e sono cittadino italiano, ma se questa etichetta significa che faccio parte di un “noi” ideale composto da persone come Borghezio, Salvini e tutto il manipolo di neofascisti che inneggia alla cacciata del ministro Kynge o invitano a spararle contro, allora io non sono italiano. Sono un esule che deve ricostruirsi un’identità.
Il mio sangue non contiene alcun gene dell’italianità. La “cittadinanza” non attiene alla genetica o alla biologia, ma alle regole che un Paese si dà. In quanto tale, non ha niente di naturale, ma tutto di culturale, e dunque è modificabile. Se essere “italiano” significa dover subire la vergogna appartenere ad una comunità popolata da questi “esemplari” allora non sono più italiano. Ma il punto è proprio questo: io sono italiano, e loro sono italiani, sulla base di un principio legale, ma non come me. Ci sono molti modi per essere italiani e la strada che scelgo io è un’altra.
Il ministro Kynge è un esempio da seguire.
La sua biografia dovrebbe essere un modello per tutti i ragazzi e tutte le ragazze italiane, specialmente in un momento storico come questo, dove domina insicurezza e senso d’impotenza.
Kynge, mi sembra di aver capito, è una donna forte e determinata. Ha affrontato la violenza del pregiudizio e dell’odio, dagli anni ottanta ad oggi. Ha lavorato duramente facendo la badante per persone o abbastanza ricche da permetterselo, o molto sole da non poterne fare a meno. Ha lavorato per pagarsi gli studi di medicina ed è diventata un medico, ha ottenuto una professione e ci è riuscita senza la sicurezza di una famiglia alle spalle, senza la tranquillità di una vita normale. Pensateci bene: è donna ed è nera. Malgrado tutto, è diventata un medico ed oggi è un ministro.
Chi dovrebbe essere un modello da seguire? Pensateci e datevi una risposta. Chi si è impegnata con tanto sacrificio o chi ha ottenuto tutto senza fatica? Chi si è costruita un percorso tassello per tassello, o chi ha ottenuto la strada già asfaltata sul sacrificio altrui o sulla benevolenza di qualche ricco signore, con altri generi di servizi e prestazioni? Quale è il vostro modello di persona che si impegna?
Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare chiunque di “meritocrazia”, per lo più gente che non ha la minima idea di che cosa si tratti e che probabilmente nella vita non ha fatto altro che raccogliere quello che altri hanno seminato. Ma persone come Kyenge sanno cosa significa impegnarsi e sacrificarsi per ottenere qualche cosa, e ottenerlo davvero da sé, per proprio merito senza l’aiutino di nessuno. Una persona che dovrebbe essere presa come esempio, viene invece insultata e denigrata sulla base del colore della sua pelle. Questa è l’Italia che io non amo, quella che non mi rappresenta e di cui non voglio far parte.
Ci sono persone che nascono nelle famiglie giuste e che malgrado non abbiano chissà quale capacità o chissà quale dedizione, riescono a studiare e ad affermarsi, senza aver mai lavato un bicchiere o fatto un turno di sera per potersi pagare gli studi. Ma c’è anche un’Italia diversa, fatta da ragazzi e ragazze che sono costrette a lavorare perché la famiglia semplicemente “non può” o “non può più di tanto”. È già difficile per loro, figuriamoci cosa deve significare per persone come Kyenge. Di chi è la responsabilità? Di Kyenge? No, la responsabilità è di uno Stato che non è efficiente, di una società che è ingiusta, e di una comunità che è complice.
Kyenge ha la pelle nera e vive in Italia da oltre vent’anni e se l’è guadagnata questa cittadinanza! Mi sento più vicino, come italiano a Lei che non a quegli individui (che si dicono i veri italiani) che hanno impugnato la bomboletta spray e hanno scritto quelle oscenità sulle pareti dei muri delle loro città. La cittadinanza è un diritto: c’è chi suda per meritarlo e chi lo ottiene senza alcun impegno, e quindi non ne comprende il valore.
Essere nati in Italia come persone libere è una conquista ottenuta da chi ha combattuto contro una dittatura feroce e per affermare la dignità della persona: la cittadinanza è un privilegio che ti dice “guarda, appartieni ad una comunità” e questa comunità è democratica e libera. Questa comunità si è costituita sul rispetto della dignità dell’uomo e contro ogni forma di discriminazione.
Tu che offendi la dignità di una persona per il colore della pelle, che non riconosci il suo sacrificio e non sei in grado di vedere che è già parte di questa comunità, questo diritto e privilegio di cittadinanza non lo meriti. E ci tengo a sottolinearlo, io non sono come te.
Sono italiano e sono orgoglioso che una persona che si è impegnata così duramente, malgrado le difficoltà, abbia tanto amore per il mio Paese, lo stia servendo come ministro (per questo è il senso: servizio!) e si senta parte di questa comunità, nata dalla lotta all’odio e all’oppressione, per l’affermazione della dignità delle persone e della libertà.