Ore 10,46, parla Enrico Letta, presidente del Consiglio: “Il nostro impegno per la crescita sarà totale”.
Ore 10,58 parla Giorgio Squinzi presidente della Confindustria: “Se sarà il governo della crescita, lo sosterremo con tutte le nostre forze. Le imprese sono pronte a investire”.
Ore 11,05: “Rifinanziare gli ammortizzatori sociali”.
Ore 11,07: “Un intervento speciale del governo per sostenere l’edilizia”.
Ore 11,18: “Prioritario il cuneo fiscale”.
Ore 11,30: “Più investimenti in infrastrutture”.
Ore 11,34: “Ridurre la bolletta energetica”.
Si può continuare, perché l’elenco delle richieste presentate al governo è lungo, dettagliato e ambizioso. Per contro, c’è un’offerta di sostegno politico ed economico, anche se di carattere general-generico.
Ma dove sono le risorse per realizzare questo libro se non dei sogni quanto meno delle multiple aspettative? Enrico Giovannini, ministro del Lavoro ed ex presidente dell’Istat, ha detto che i 12 miliardi dei quali si era parlato non ci sono. Nemmeno se si chiude la procedura d’infrazione.
Quanto all’Unione europea, mette in campo 6 miliardi in tutto per creare posti di lavoro. Dunque, se restiamo nel tradizionale do ut des, scopriamo ben presto che non c’è nulla da dare. E allora?
La chiave di volta non sta nella logica di scambio, ma nella logica dell’impegno e delle responsabilità reciproche. Quelle del governo sono chiare e le ha ricordate anche Squinzi (dalla riforma elettorale alla giustizia, a tutto ciò che consenta di trasformare lo spirito pubblico e migliorare le attese verso la politica, le sue regole, il suo modo d’essere).
Per il resto, cioè il bilancio dello Stato, si può solo operare dentro il corsetto delle scelte europee che, se passa la riforma dei trattati chiesta dalla Merkel, sarà sempre più stretto. Dunque, un gioco a somma zero tra entrate e uscite. Niente pasti gratis. Ma c’è chi continua a non capirlo.
Prendiamo l’occupazione giovanile. Appena si propone di toccare i garantiti, saltano su anche i liberisti incalliti, come è successo per quel che riguarda la mobilità degli anziani allo scopo di favorire l’ingresso dei giovani. Niente patti redistributivi tra generazioni, si dice. Più lavoro per tutti. Evviva. Tagliamo le spese inutili. Ma poi sono inutili solo quelle altrui. Tagliamo le tasse. Le mie, non le tue. Squinzi chiede una tregua. Giusto. Ma chi comincia? Sempre qualcun altro?
L’impegno e la responsabilità della Confindustria non è di riproporre un nuovo collateralismo (sia pur vigile) con il governo delle larghe intese. Ma piuttosto di fare chiarezza al proprio interno. Squinzi dice: “Non siamo né la casta né il salotto buono, ma la casa del capitalismo reale”.
Però è un condominio affollato di conflitti tra produttori di merci e di servizi, tra chi riscuote cedole e chi persegue il profitto, tra chi possiede e controlla la propria azienda e chi l’ha data in pegno alle banche, tra chi crede nel mercato (anche dei capitali) e chi soltanto nella propria famiglia.
Lo scontro tra Guido Barilla e il capo dell’Enel, Fulvio Conti, è lo specchio di una contraddizione difficilmente componibile, neppure da Squinzi il re dei collanti, come egli stesso ha ricordato con spirito.
Mettere ordine all’interno è una premessa anche per fare della Confindustria non una lobby di Montecitorio, ma una struttura di servizio che aiuta gli associati a crescere, investire, affinare il loro mestiere.
E, su questa base, lanciare proposte urbi et orbi.