“Il denaro deve servire, non governare”: è uno dei passaggi forti del discorso che il Papa ha rivolto lo scorso 17 maggio a un gruppo di nuovi ambasciatori. Un intervento che, assieme a quello dato nella stesso giorno alla Caritas Internationalis, può offrire numerosi spunti di riflessione.
In particolare, Papa Francesco ha evidenziato che l’etica cristiana dà fastidio, perché relativizza il denaro. Credo sia opportuno riflettere, seppur nella brevità di un articolo da blog, su un tema così antropologicamente rilevante e che crediamo sia capace di schiudere una serie di considerazioni che tenteremo appena di abbozzare nelle poche righe che seguono.
Proprio il tema del rapporto tra uomo e denaro, al pari di quello tra uomo e potere, trattato nell’omelia durante la messa inaugurale del Pontificato, allorquando ha affermato che “il vero potere è servizio…che ha il suo vertice luminoso sulla Croce”, delinea come non altri il profilo civile (politico, economico e culturale) del cattolico maturo. Questi, a differenza dell’“ateo devoto” e del “cattolico adulto”, ammette tutta la fragilità della sua ragione e si presenta quotidianamente di fronte al Padre e al prossimo come un “devoto peccatore”, bisognoso di Grazia e teso alla perenne relativizzazione di qualsiasi oggetto o soggetto che pretenda di incarnare un assoluto terrestre.
Dunque, credo si possa dire che Papa Francesco, affermando che “il denaro deve servire, non governare”, dopo averci mostrato il carattere specifico del potere e delle istituzioni politiche nel servizio e nel loro essere funzionali alla soluzione dei problemi, abbia centrato la questione antropologica fondamentale del cristianesimo e gettato una luce su quale sia il contributo più intimo dei cattolici alla vita civile.
Il “relativismo” sano al quale ci rinvia Papa Francesco nega l’indifferentismo tipico del relativismo ludico e qualunquista più volte condannato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, in nome del quale svaniscono le differenze e tutto appare assorbito dal buio della notte nella quale le “vacche sono tutte nere”. È questo il caso in cui il potere e il denaro finiscono per relativizzare la dignità dell’uomo, ponendosi come fini ultimi e per i quali sarebbe lecito sacrificare tutto e tutti. La prospettiva antropologica cristiana, al contrario, pone al centro l’uomo, in quanto imago Dei (l’Assoluto) e non tollera che niente e nessuno sia innalzato o pretenda di essere innanzato a fine ultimo ed assoluto, al di fuori della dignità di ciascuna persona.
Si tratta di un tema fondamentale e storicamente rilevante anche per comprendere la genesi delle istituzioni tipiche delle società moderna, democratica e liberale. Si pensi, ad esempio, a quanto il cristianesimo abbia storicamente contribuito a relativizzare gli assoluti terrestri nel campo della politica: il cristianesimo ha ammazzato lo spirito faraonico, scriveva lo storico Guglielmo Ferrero. La lapidaria sentenza di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” rappresenta una svolta decisiva che ha favorito il processo di democratizzazione e la pietra angolare delle moderne democrazie. Con ciò, una volta per tutte ed in modo travolgente, è stato introdotto nella storia il principio che “Káisar” non è “Kyrios” – la definitiva “relativizzazione” e desacralizzazione del potere politico, la sua sottomissione al regno inviolabile della coscienza ed il rispetto per la trascendente dignità della persona umana. Ed allora, affermare che “Káisar” non è “Kyrios” significa innanzitutto mettere sotto scacco il potere politico con le sue pretese onnivore e riconoscere le conseguenze politiche di questo principio religioso: esso è alla base del principio di sussidiarietà che esalta la realizzazione del progetto della società civile.
Il cristianesimo ha offerto questo grande contributo alla storia delle idee e delle istituzioni e Bergoglio, nell’affermare che l’etica cristiana relativizza il denaro, si colloca esattamente in tale scia e ci dice in modo concreto, senza alcuna caduta retorica, che al centro dell’organizzazione politica ed economica c’è la persona. Le istituzioni, la forma di stato, le leggi, il patto sociale dovranno conformarsi a questa affermazione di principio che ha carattere ontologico, epistemologico e morale.
In un altro passaggio, parlando alla Caritas internationalis, papa Francesco ha affermato: la crisi non è solo economica, anzi a dire il vero, è culturale, antropologica. Con questa affermazione, Papa Francesco non nega la rilevanza delle cosiddette leggi del mercato, quanto piuttosto ci invita a considerare il tema della scelta dell’uomo, posto di fronte alla propria coscienza, una coscienza che il cristiano è chiamato a conformare al messaggio evangelico. Le leggi del mercato non sono prescrizioni morali, asserti prescrittivi, il mercato non si definisce a partire da alcun “dover essere”. Quando gli economisti e gli scienziati sociali scrvono di “leggi del mercato”, in realtà, non fanno altro che esprimere alcuni asserti descrittivi che disegnano le relazioni funzionali tra variabili (dipendenti e indipendenti) date e circoscritte, all’interno di in un campo che esclude tutte le altre: si tratta della famosa e basilare locuzione ceteris pari bus (a parità di altre condizioni). In realtà, sono le scelte degli uomini che conformano un dato mercato e che ne attivano i processi. Come argomentato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, il mercato è uno straordinario strumento di allocazione delle risorse scarse e disponibili, ma non è l’unico, e la sua logica contrattualistica lo rende tanto indispensabile quanto insufficiente.
I processi che definiamo di “mercato” non sono necessariamente adatti a descrivere tutte le dimensioni del vivere umano, esistono dimensioni irriducibili al mercato, per le quali le cosiddette “leggi del mercato” mostrano tutta la loro inadeguatezza a descriverne la logica, finendo per rappresentare un’immagine caricaturale delle relazioni interpersonali. Fare di questa particolare dimensione la dimensione universale che pretende di descrivere l’umano che è nell’uomo è un gravissimo errore in termini antropologici, ma che si riflette, presto o tardi, anche nel contesto economico. Chi agisce sul mercato è la persona in carne ed ossa, con il suo vissuto e la sua cultura e un’immagine deviata e caricaturale del soggetto attore dei processi economici rappresenta un grave rischio per la governance dei mercati e delle istituzioni che in essi operano. In pratica, il mercato non ha bisogno necessariamente di persone che, ad “ogni costo e ad ogni prezzo”, si servano spregiudicatamente delle istituzioni politiche, economiche e culturali per il perseguimento dei loro obiettivi. Questa sarebbe una delle tante forme storiche che hanno assunto e possono assumere i processi di mercato, ma non l’unica.
Dunque, eccoci giunti al tema che, per eccellenza, interessa la dimensione economica della Dottrina sociale della Chiesa, si tratta della variabile culturale e antropologica. In questa prospettiva si inserisce la dimensione del “dono”, ben presente in Caritas in veritate, capace di conformare i mercati e di renderli il più possibile a misura d’uomo. In tal senso, il Magistero sociale di Papa Francesco opera in stretta continuità con quello di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II e il “dono” appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e, di conseguenze, autenticamente umana l’esistenza. Il mercato è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile – in breve, ciò che non è economico – evidentemente non entra e non deve entrare nella logica di mercato.