Mercoledì prossimo l’Italia potrebbe uscire dalla procedura d’infrazione che dura dalla fine del 2009. Enrico Letta tirerà un sospiro di sollievo, mentre Fabrizio Saccomanni spera che i comuni sblocchino 14 miliardi di investimenti. Ma non c’è molto da celebrare. Dovremo restare sotto quota 3 per cento nel rapporto tra deficit e pil anche l’anno prossimo, con una economia ancora in recessione e una disoccupazione in crescita. Ciò vuol dire che gli spazi di manovra sono esigui, mentre la politica economica avrebbe bisogno di maggiore flessibilità. Non solo. Stiamo pur sempre discutendo di aggiustamenti marginali, di minimi sistemi, mentre i massimi sistemi sono altrove, nel cielo sopra Berlino.
La Germania ha un piano ambizioso e ne presenterà il primo abbozzo al Consiglio europeo di fine giugno. Poi, innescata la bomba a orologeria, Frau Merkel si concentrerà sulle elezioni di settembre. La Cdu parte dal 41% quindi non c’è dubbio che vincerà, ma i liberali rischiano di restare fuori dal Parlamento, in più c’è l’incognita di Alternative für Deutschland, il movimento euroscettico. Si delinea, insomma, l’ipotesi di un’altra Grosse Koalition. A quel punto, ripreso il controllo della situazione domestica, al consiglio europeo di dicembre ci saranno le condizioni politiche per discutere il grande progetto.
In sostanza, si tratta di creare un vero e proprio governo economico, unificando le politiche di bilancio, ben oltre il fiscal compact. L’Ecofin diventa qualcosa di simile a un ministero che risponde al Parlamento europeo e non solo ai governi nazionali. E’ questa, secondo lo schema tedesco, la condizione per far passare la riforma bancaria e la vigilanza nella Bce. Darebbe legittimità a un processo che rischia di essere giudicato incostituzionale, allontanando il pericolo di far pagare ai contribuenti tedeschi il costo di dissesti che hanno origine in altri paesi.
Un modo astuto per difendere le proprie banche rinviando alle calende greche un programma troppo vasto per essere realistico? Forse, ma non bisogna sottovalutarlo. Ne ha anticipato le linee generali il Financial Times. Gli inglesi sono estremamente contrari, mentre François Hollande lo abbraccia in pieno, anche se rischia di essere scavalcato perché la Germania ha già pronti i fatti, cioè la brutta copia dei nuovi trattati. “I francesi hanno le idee, i tedeschi i soldi” ha scritto Die Zeit. L’asse Berlino-Parigi si ricompone, così, a un livello più alto.
Fuga in avanti? Vedremo. Ma meglio non perdersi in chiacchiere da talk show e nelle solite fumisterie ideologiche. Chiediamoci piuttosto se siamo pronti a cedere la piena sovranità della politica fiscale. Letta ha annunciato fin dal suo insediamento che ci vuole “più Europa”. Nel momento in cui la Merkel dice vedo, quali carte ha il governo italiano?
Non sarebbe male ripercorrere il dibattito sull’adesione allo Sme nel 1978 e il negoziato condotto da Paolo Baffi allora governatore della Banca d’Italia. Un liberale, un economista di solida dottrina rispettato nel mondo intero, ottenne che l’Italia aderisse in modo flessibile, seguendo una banda d’oscillazione più ampia (il 6%), sulla base della convinzione che “ogni qualvolta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste”. Anche l’idea che il cambio fisso possa aiutare la ristrutturazione delle imprese non regge: “Se viene usato come sferza il cambio colpisce imprese già esposte agli stimoli della concorrenza internazionale e lascia immuni i torpidi settori interni che forniscono beni e servizi non commerciabili con l’estero”, sostiene Baffi. Esattamente quel che è accaduto negli anni dell’euro forte.
In articolo sulla Stampa pubblicato nel 1989 scriveva che “un sistema a guida marco fondato sulla stabilità dei prezzi e sulla rigidità del cambio, impone a qualsiasi Paese che subisca uno shock riduttivo della sua capacità di produrre reddito la scelta tra il finanziamento estero e il ricorso all’abbattimenti dei prezzi interni e, maggiormente, dei salari”. Nello stesso articolo ricordava il dibattito sul coordinamento delle politiche fiscali. A suo parere, una volta stabilito il vincolo di un equilibrio finanziario complessivo verso il quale convergere, l’omogeneità dei sistemi tributari è negativa.
Nel 1978 non eravamo pronti. Per la verità, non lo eravamo nemmeno nel 1998 per l’euro. Romano Prodi lo sapeva, ma è stato scavalcato da Aznar. Vanagloria spagnola, complesso d’inferiorità italiano oggi costano caro a entrambi. Uscire dall’euro sarebbe disastroso. Chi lo propone omette qualche piccolo particolare, dopo aver subito una svalutazione di almeno il 50% per tenere in piedi la nuova liretta dovremo comunque tagliare deficit e debito, bloccare i salari e i prezzi, per evitare l’onda inflazionistica, aumentare la produttività. Lacrime e sangue. In Argentina, paese che viene tanto citato per dire si può fare, l’inflazione è, oggi, al 24% (o forse di più perché le cifre ufficiali non sono attendibili) a fronte di una crescita del pil reale di appena due punti.
Ma non siamo pronti nemmeno per il salto che chiede la Germania, la quale vuole un’Europa a più strati, con un nocciolo duro integrato che coincide con l’area tedesca più la Francia, la Finlandia, un domani la Polonia. Un’Europa multipla, a geometrie variabili, razionalizzando hegelianamente il reale. Invece di recitare formule propiziatorie, dovremmo discutere dove vogliamo stare e come. E prepararci a rinegoziare i trattati (Maastricht compreso, visto che le sue formulette decise vent’anni fa sono quanto meno obsolete). In condizioni diverse, ma con lo stesso spirito del 1978, all’insegna della flessibilità.