Ieri la promozione dell’Italia, tra i Paesi virtuosi per cui l’Ue ha previsto la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Oggi una bocciatura sonora. L’Italia infatti scende nella classifica dei Paesi più competitivi, e non le resta che lasciare il suo posto ad altri. Le politiche degli ultimi anni e le liberalizzazioni sono servite a poco, oppure sono state insufficienti, se viene additata come un Paese perdente. Dal 1997 ha ceduto infatti cinque posizioni, mentre i grandi del G7 restano ben ancorati a salutarci dall’alto.
Il piazzamento dell’Italia: 44esima su 60
L’Italia si è posizionata al 44esimo posto dal 40esimo nella classifica internazionale della competitività stilata ogni anno dall’Institute for Management Development (Imd) di Losanna (Svizzera) ed è stata inserita anche tra i ”perdenti”, cioè tra i Paesi che hanno perso più di 5 posizioni dal 1997 ad oggi. La classifica, che comprende 60 Paesi e assegna il primo posto agli Usa, vede il peggioramento di Spagna (da 39 a 45), Portogallo (da 41 a 46 ) e in misura minore la Francia (da 29 a 28).
I migliori
Tra i primi dieci posti, dopo gli Usa (che erano secondi nel 2012), si piazzano Svizzera, Hong Kong, Svezia, Singapore, Norvegia, Canada, Emirati Arabi Uniti, Germania e Qatar.
L’Italia
Sono i cattivi voti in materia di performance economica ed efficienza del governo a gravare sul punteggio dell’Italia che nel 2013 dovrà sapere affrontare le sfide di tagliare le spese pubbliche per ridurre il cuneo fiscale, trasferire la pressione fiscale dalle imprese ed il lavoro al consumo, la proprietà ed il reddito da capitale, ma anche semplificare i ”business regulatory framework”, promuovere i partenariati pubblico-privato ed aprire il mercato interno, scrive l’Imd.
Chi sale in classifica
In miglioramento anche il Giappone (da 27 a 24), stabili Germania (9) e Regno Unito (18). Per quanto riguarda i paesi emergenti “Brics”, salgono Cina (21) e Russia (42), mentre scendono India (40) e Brasile (51). In un esame dei movimenti nella classifica da 1997 ad oggi, l’Imd suddivide i Paesi tra vincitori (saliti di 5 o più posti) e perdenti (scesi di 5 o più posizioni). L’Italia, 39esima nel 1997, è tra i perdenti.
Il dibattito sull’austerità
Stephane Garelli, direttore dell’Imd World Competitiveness Center, ha spiegato che “mentre l’eurozona rimane ferma, il robusto ritorno degli Usa al primo posto della classifica e le buone notizie dal Giappone hanno ravvivato il dibattito sull’austerità. Le riforme strutturali sono inevitabili, ma la crescita resta un prerequisito per la competitività. Inoltre, la durezza delle misure di austerità causano troppo spesso lo scontento della popolazione. Alla fine, i Paesi hanno bisogno di preservare la coesione sociale per rilanciare la crescita e la ricchezza”.
Le lodi
Usa, Singapore e Canada, sebbene non nella lista dei vincitori, si basano su modelli di competitività che si affidano a vantaggi di lungo termine come la tecnologia, l’educazione e le infrastrutture avanzate. In Europa, Svizzera, Svezia e Germania condividono la stessa ricetta per il successo: export, manifattura, diversificazione, competitività delle Pmi e disciplina finanziaria.
In Asia, il successo cinese ha impresso una forte spinta alla competitività della regione, facendo sì che molte economie del Continente reindirizzassero il loro export dagli Usa e l’Ue ai mercati emergenti. Messico e Polonia stanno ritrovando la strada della competitività, che però dovrà essere confermata nel tempo.
Le critiche
L’Europa ha perso terreno e rappresenta oltre la metà dei Paesi perdenti dal 1997.
Garelli ha tuttavia spiegato che “generalizzare può essere fuorviante”. E’ vero, la competitività europea è in declino, ma “Svizzera, Germania e Norvegia sono esempi di successo. L’America del Sud delude, ma ci sono grandi multinazionali in tutta la regione. Brasile, India, Cina, Russia e Sud Africa hanno strategie di competitività e performance molto diverse, ma restano terre di grandi opportunità. In conclusione, le regole d’oro della competitività sono semplici: manifattura, diversificazione, export, investimenti in infrastrutture, educazione, supporto alle Pmi, disciplina fiscale, e soprattutto coesione sociale”. Il governo Letta, di punti da cui iniziare per rimettere in moto l’Italia, ha davvero l’imbarazzo della scelta.